FEDERICO MONTALDO

Fotografia e Diritto

FOTOGRAFIA SEMPLICE E CREATIVA.
IL CASO DELLA FOTOGRAFIA DI FALCONE E BORSELLINO

date » 07-04-2025 15:45

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tags » Falcone, Borsellino, Tony Gentile, semplice, creativa, diritti, fotografia, mafia, tutela, magistrati, palermo,

falcbors.jpgGiovanni Falcone e Paolo Borsellino, Palermo, 1992
(c) Tony Gentile

Per chi si occupa di diritto della fotografia, la vicenda della arcinota immagine (giustamente definita “iconica”) di Tony Gentile, ritraente i due magistrati vittime della mafia, a pochi mesi dagli attentati della terribile estate del ’92, costituisce un caso imprescindibile.

Il caso è già stato raccontato e commentato in due articoli (pubblicati su Noc Sensei, nella sezione "Fotografia: diritti, obblighi privacy" in occasione delle precedenti decisioni di merito: il primo, a seguito della sentenza del Tribunale di Roma; il secondo, a seguito della sentenza di appello.
La disputa vedeva contrapposto il fotografo Tony Gentile, autore del celebre scatto, contro la RAI Radiotelevisione Italiana. Quest’ultima, infatti, decorsi venti anni dalla realizzazione della fotografia, l’aveva mandata in onda più volte e pubblicata sul proprio sito web, a corredo di una campagna di sensibilizzazione in tema di legalità, senza alcuna autorizzazione da parte del suo autore e senza la corresponsione di alcun compenso.
I due giudizi di merito si sono conclusi sfavorevolmente per il fotografo, con il rigetto di tutte le domande proposte.
Ora, con recente sentenza (pubblicata in data 20 Dicembre 2024), la prima sezione della Corte di Cassazione, ha messo la parola fine alla controversia, pronunciandosi per l’inammissibilità del ricorso, riaffermando principi già esposti dalla Corte di Appello, ma di fatto lasciando senza risposta una serie di censure concernenti il cd. “doppio regime” di tutela della fotografia, a secondo che la stessa sia da qualificare come “semplice” o “creativa”.

L’attribuzione di una fotografia all’una o all’altra categoria comporta importanti ricadute in termini di diritti:
- nel caso della fotografia cd. “semplice”, all’autore sono riconosciuti i soli “diritti connessi”, cioè di “riproduzione, diffusione e spaccio”, che peraltro si esauriscono con lo scadere dei venti anni dallo scatto;
- nel caso della fotografia “creativa”, all’autore è accordata la piena tutela ai sensi della legge sul diritto d’autore, essendo la fotografia considerata come opera dell’ingegno (alla stregua di tutte le altre: opere letterarie, musicali, della scultura, della pittura, del cinema ecc.). I diritti che ne conseguono, morali e patrimoniali, durano per tutta la vita dell’autore e, in favore degli eredi, fino a 70 anni dalla morte.

Nel giudicare la vicenda - pur abbandonato il riferimento alla mancanza di contenuto “artistico” su cui si era incentrato il Tribunale – la Corte di Appello e la stessa Cassazione tengono fermo il punto del “carattere creativo” o meno della fotografia, quale discrimen per ascrivere la fotografia all’una o all’altra categoria.
Ad avviso dei giudici, infatti, la peculiarità dell’immagine, il suo carattere “particolarmente toccante” non risiede nel suo carattere creativo ma nell’eccezionalità dei soggetti, ovvero dei due magistrati, simbolo della lotta alla mafia, trucidati poco tempo dopo quello scatto.
Ora, non c’è alcun dubbio che il successo di quella fotografia è dipeso dai due soggetti ripresi e dalle loro tragiche morti, che hanno lasciato un segno indelebile nella storia e nella vita civile del nostro Paese.
Questo elemento, che è del tutto ovvio, non è sufficiente – di per sé - ad escludere il carattere “creativo” di quella fotografia; né può essere utilizzato per incidere sulla sua valutazione, in senso negativo.
A ben guardare, quell’immagine rappresenta un momento di intesa tra due persone, due amici, due colleghi (ma sarebbe lo stesso se fossero anche degli sconosciuti), che ritrae l’attimo fugace di un sorriso ed è accompagnata da una costruzione compositiva armonica e simmetrica. Il fatto che sia ritenuta “toccante” alla luce della sorte dei due protagonisti è del tutto irrilevante ai fini della sua qualificazione.
Si consideri tra l’altro che tra gli elementi selezionati dalla giurisprudenza per attribuire valore creativo ad una fotografia vi è anche la “capacità di cogliere l’attimo”, che è proprio ciò che si riscontra in questa immagine.
Ma ancor prima, dovrebbe considerarsi che l’atto del fotografare è in sé stesso un atto creativo in quanto si basa su una sintesi di capacità personali che si manifesta spesso come una sorta di illuminazione improvvisa, in una modalità di pensiero “produttiva”, che restringe e concentra il campo percettivo e cognitivo e che è preceduto da una serie di momenti preparatori (la scelta dell’inquadratura, della pellicola, dei settaggi della fotocamera, l’uso o meno del flash, dell’ottica).
Il fotografo compie sempre un’operazione di “prelievo dalla realtà”, che successivamente continuerà a vivere in modo autonomo e indipendente dalla realtà da cui è tratto. È del tutto illusorio ritenere che la fotografia possa semplicemente riprodurre il reale: in qualunque fotografia prevale lo sguardo del fotografo e il risultato non è mai la realtà ma qualcosa che la richiama o la cita.
C'è poi da considerare un altro aspetto. Ed è un aspetto che riguarda il linguaggio e il ruolo della fotografia, la quale (in Italia) è ancora considerata dai più con indulgente simpatia; di certo la meno rilevante tra le opere dell’ingegno, come testimonia il fatto che essa è entrata in tale novero solo nel 1979.
Esistono tante specie di fotografia: il reportage, la foto di moda, pubblicitaria, concettuale, artistica, sportiva, di ritratto, di cronaca ecc.
Ognuna di essa ha le proprie regole, le proprie specificità, le proprie peculiarità, che sarebbe bene conoscere per poterne giudicare i contenuti.
Il fatto è che il giudice - che nel caso in esame non ha neppure ritenuto di avvalersi dell’opera di un consulente tecnico - non ha né le capacità né le conoscenze per esprimere un giudizio sull’aspetto creativo o meno di una fotografia. A meno che per propria cultura personale conosca i temi sopra menzionati, nella pressoché assoluta generalità dei casi al giudicante manca la grammatica per scandagliare, valutare e esprimersi su un concetto così delicato e sfuggente come quello della creatività (in assoluto ed in particolare in fotografia).
D’altra parte, non sarebbe neppure giusto caricare sui magistrati il compito di una valutazione che spesso è talmente soggettiva e discrezionale, fondata sul bagaglio culturale di ogni singolo giudicante da divenire potenzialmente arbitraria.

Un’ultima notazione riguarda il significato attuale del persistente regime del “doppio binario”.
La durata limitata dei diritti connessi alla categoria “fotografia semplice” era giustificata per il fatto che, quando tale nozione è stata introdotta (nel 1941), la fotografia aveva un’importantissima funzione di medium. In un’epoca in cui l’analfabetismo in Italia era ancora elevatissimo, la televisione non esisteva ed in cui la quasi totalità dell’informazione passava attraverso la carta stampata, la limitazione dei diritti di privativa sulle immagini aveva una sua specifica funzione.
Non per niente tra gli anni ’20 e gli anni ’60 si colloca l’epoca d’oro delle riviste e dei Magazines ospitanti fotografie (Life, Vu, Regards, Paris Match, Illustrazione Italiana, Epoca, Europeo ecc.).
Ottant’anni dopo, in un contesto tecnologico completamente cambiato, tale categoria appare del tutto anacronistica. Nel mondo digitalizzato, del web, dei social, delle tv satellitari, l’informazione generale non passa più attraverso la fotografia, la quale – in disparte l’aspetto artistico – si configura, anche nel fotogiornalismo, come un punto esclamativo su un articolo, una notizia, un servizio. Il reportage non è più (o non è solo) quello del medico di campagna di Eugene Smith, che raccontava su Life agli americani quella storia, ma è sempre più un lavoro di riflessione e indagine, in cui l’aspetto informativo non sempre è preponderante.
Ecco allora che, data la sostanziale incertezza nel tracciare una netta linea di demarcazione tra fotografia oggetto di diritto d’autore o di diritto connesso, appare quanto mai necessario indirizzarsi verso il superamento del regime del cd. “doppio binario”.
Ciò con l’introduzione, a livello legislativo, di un unico sistema che conceda un’uniforme protezione alle opere fotografiche, fondato non già su valutazioni di tipo estetico-creativo, ma sulla presenza di un minimo di prestazione personale da parte del fotografo.

LIBERATORIA FOTOGRAFICA: COS'E' E QUANDO SERVE

date » 09-04-2025 11:13

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tags » fotografia, liberatoria, ritratto, diritto, autorizzazione, consenso, minori,

DSCF8584.jpgFontana di Trevi, Roma, 2019
(c) Federico Montaldo

Chiunque abbia frequentato la fotografia di ritratto, nelle sue varie forme, si si è presto o tardi trovato a confrontarsi con il tema della liberatoria.
Ma cosa si intende esattamente con questo termine, e, soprattutto, quale ne è lo scopo e quali i suoi limiti?
Per comprenderne il significato e la finalità occorre fare riferimento a due norme di legge: l’art. 10 del codice civile e l’art. 96 della legge sul diritto d’autore.
La prima norma (intitolata “Abuso dell’immagine altrui”) prevede che:

“qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o del figlio sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”.

Come si può notare dalla semplice lettura del testo la norma non regola l’uso, ma sanziona l’abuso. Ciò significa che per determinare la legittima esposizione e pubblicazione del ritratto di una persona occorre: a) che avvenga nei casi previsti dalla legge; b) che non arrechi pregiudizio al decoro e/o alla reputazione della persona.

La seconda norma prevede che:

“il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa salve le disposizioni dell’articolo seguente”.

Tale norma esprime la “regola del consenso”, cioè il principio secondo il quale per la riproduzione dell’immagine di una persona è necessario il suo consenso.
In disparte per ora le (non poche) deroghe previste dalla legge a tale principio (contenute nel successivo art. 97), concentriamoci sulle caratteristiche del consenso.
Senza qui accennare alla natura giuridica del consenso (come negozio unilaterale), è importante osservare che esso deve essere espresso, cioè deve essere reso manifesto. Ed è esattamente a questo che provvede la cd. liberatoria, che quindi altro non è che una dichiarazione scritta con la quale il soggetto ritratto autorizza l’esposizione e la pubblicazione della propria immagine, così ponendo al riparo il fotografo (od eventuali altri soggetti) dal rischio di un eventuale abusivo utilizzo.
Ciò entro i limiti temporali e secondo le modalità e gli scopi stabiliti nella liberatoria stessa.
Occorre dire infatti che il consenso è generalmente espresso con riguardo ad un determinato utilizzo, e, soprattutto, è circoscritto nei confronti del soggetto (o dei soggetti) che ne sono destinatari.
Ad esempio, se io esprimo il consenso alla pubblicazione della mia immagine per una campagna benefica, ne risulterebbe ovviamente abusivo l’utilizzo per una pubblicità. Lo stesso a dirsi se quell’immagine, in ipotesi autorizzata esclusivamente per la realizzazione di un manifesto, sia poi utilizzata sul web, ancorché per lo stesso scopo.

Ciò detto, la liberatoria (intendendosi per tale un’autorizzazione scritta e sottoscritta) è sempre da considerarsi necessaria?
Come sopra evidenziato, il consenso deve sempre essere espresso. Ciò non significa tuttavia che la sua espressione debba necessariamente intervenire in forma scritta. Il consenso potrebbe essere infatti manifestato anche in forma tacita o “per fatti concludenti”: cioè quando si possa affermare che, per le circostanze in cui il soggetto è stato ritratto, è comunque evidente o implicito il suo consenso.
Il problema che si pone molto spesso nella pratica riguarda la condotta del soggetto ritratto, che deve essere sufficientemente univoca. Non si può cioè attribuire rilievo a condotte neutre (come ad esempio uscire di casa o intrattenersi presso un luogo pubblico), ma solo a comportamenti che, sebbene taciti, appaiono comunque inequivoci. In questo senso, ad esempio, è stato ritenuto che sottoporsi spontaneamente ad un servizio fotografico, al di fuori di una specifica commissione, costituisca implicito consenso alla diffusione della propria immagine; in altri casi si è fatto riferimento alla condotta di chi non abbia opposto alcun divieto alla ripresa di fotografie durante uno spettacolo in un locale pubblico.
In molti casi potrà essere la fotografia stessa a rivelare il comportamento: se il soggetto inquadrato guarda in macchina e magari sorride pure, sarà più agevole sostenere che abbia prestato il proprio consenso rispetto ad una immagine in cui il soggetto tende un braccio in segno di opposizione, o semplicemente, abbia un atteggiamento poco … conciliante!
Un’ultima, ma fondamentale, caratteristica del consenso è la sua revocabilità. Trattandosi infatti di in diritto personalissimo, il soggetto, anche quando abbia autorizzato l’utilizzo della propria immagine può sempre mutare avviso, così revocando il consenso originariamente dato. In questo caso, tuttavia, se il fotografo o il soggetto destinatario dell’autorizzazione ha sostenuto spese e/o si è impegnato contrattualmente per l’utilizzo delle immagini avrà diritto al risarcimento dei danni subiti.

IL CASO NEVERMIND DEI NIRVANA

date » 08-04-2025 17:13

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tags » Nirvana, nevermind, fotografia, disco, musica, dollaro, minori,

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A proposito della famosa copertina di Nevermind, leggendario album dei Nirvana del 1991, qualcuno ha detto che la cosa più oscena di quella immagine è il dollaro.

Non sembra pensarla così Mr. Spencer Elden (o forse, sarebbe meglio dire, i di lui avvocati), che quando comparve sulla copertina del celebre disco aveva pochi mesi, e che oggi, maturo trentenne, ha fatto causa agli ex componenti della band e alle persone coinvolte nella realizzazione dell’album, sostenendo di essere stato sfruttato.
In particolare, a quanto si apprende, i Nirvana avrebbero usato intenzionalmente l’immagine «pedopornografica» del bambino per scopi commerciali e «sfruttato la natura scioccante della sua immagine» per «provocare una reazione sessuale istintiva» nello spettatore e promuovere la band a spese di Elden.
Poco importa che la copertina di Nevermind sia stata interpretata come una critica al capitalismo, e che, secondo la legge americana, immagini di bambini nudi che non abbiano elementi per essere considerate contenuti sessuali non vengono ritenute pornografiche.

Gli avvocati di Elden hanno aggiunto che la fotografia ha provocato al loro cliente «danni permanenti» e che la presenza della banconota da un dollaro suggerisce in qualche modo che il bambino possa essere «un sex worker» (v. Rolling Stone, 26 Agosto 2021, Il Post, 25 agosto 2021, Variety, 24 Agosto 2021).
Che dire?
La prima possibile osservazione riguarda la genuinità della sofferenza della vittima. Su di essa (la genuinità, non la vittima) è lecito sommessamente avanzare qualche dubbio, dato che il nostro Elden, – evidentemente prima di aver preso coscienza dei propri patimenti psicologici - era arrivato a tatuarsi sul petto la scritta “Nevermind” e che in passato, in occasione degli anniversari dell’uscita del disco, aveva anche provato a ricreare la copertina del disco.
Lasciamo questo argomento alla difesa delle controparti, nei cui confronti il “petitioner” ha domandato un risarcimento del danno di $ 150.000 ciascuno (tra questi il fotografo che scattò la foto, Kirk Weddle; il direttore artistico dell’album, Robert Fisher; i due ex membri dei Nirvana, Dave Grohl e Krist Novoselic; la ex moglie di Kurt Cobain, Courtney Love; le persone che si occupano di gestire l’eredità di Cobain, e vari rappresentanti delle etichette discografiche che hanno pubblicato e distribuito il disco negli ultimi trent’anni).

La seconda osservazione riguarda una società – quella americana - in cui tutto è (o è divenuto) ossessivamente sessualizzato e in cui l’oscenità passa solo ed esclusivamente attraverso le immagini che riportano al sesso o agli organi sessuali. In ogni caso e a prescindere dal contesto. Never mind (è il caso di dire) se sono i capezzoli della Venere di Botticelli o il corpo della bimba vietnamita in fuga dalle bombe (americane) al napalm. Su Facebook non passeranno! Anche il puritanesimo si è digitalizzato.
E poco importa se film o videogiochi propongano senza limiti di età immagini e temi di assoluta violenza, truculente e sanguinarie e se l’uso delle armi, intoccabile, è garantito in Costituzione. In questo nulla di osceno.
In Europa stiamo messi un po’ meglio. Ma non disperiamo. Solitamente da Oltreoceano abbiamo importato il meglio, ma anche il peggio.

La terza osservazione è di tipo legale (il che giustifica l’inserimento di questo pezzo nella rubrica di riferimento) e tocca ancora una volta il tema dell’immagine dei minori.
Come ho sempre più occasione di constatare - sia dall’analisi che dalla frequenza dei casi giudiziari, oltre che dai quesiti che mi vengono posti a livello professionale - si tratta di un tema tra i più delicati in materia di rapporti tra fotografia e diritto.
Per una sintesi delle principali problematiche si rinvia al post pubblicato in questa sezione sugli aspetti legali del ritratto dei minori.

In particolare, in tema di immagini dei minori, l’interesse primario e assoluto è costituito dalla tutela dello sviluppo armonioso e completo della personalità del minore, al cospetto del quale tutte le ipotesi derogatorie sull’obbligo del consenso - che in questo caso non può mai essere presunto, come a certe condizioni è ravvisabile nei confronti degli adulti - debbono cedere e/o comunque sono soggette ad essere interpretate restrittivamente da parte del giudice.
Ma, a ben guardare, non sembra essere neppure questo il punto nodale – nel caso di Nevermind – poiché l’azione di Spencer Elden giunge ben oltre il raggiungimento della maggior età, a personalità ormai abbondantemente formata (bene o male non è qui oggetto di indagine).
Piuttosto è una questione di liberatoria tout court, cioè del consenso alla pubblicazione della propria immagine.

A dire dei legali di Elden, infatti, l’unica autorizzazione a suo tempo accordata al fotografo (che pare fosse amico del padre di Elden) era quella allo scatto del tuffo in acqua (ricevendo un compenso di $ 200), ma non alla pubblicazione della stessa sulla copertina di un disco (che ha poi venduto oltre 30 milioni di copie).
Sotto tale profilo, se effettivamente sussistente, la domanda può apparire fondata e lo stratosferico numero di copie del disco vendute rappresenta un elemento rilevantissimo per la eventuale quantificazione del danno.
Al netto di ogni considerazione circa il preteso (e tardivo) pregiudizio asseritamente subito in chiave “pedopornografica”.

Il RITRATTO DEI MINORI

date » 08-04-2025 16:54

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tags » Ritratto, minori, minorile, tutela, immagine, fotografia, consenso, minorenne, privacy,

LNT.Cuba178.jpgCuba, 2003
(c) Luca Nizzoli Toetti

Tra i temi più delicati in tema di fotografia vi è sicuramente quello concernente l’individuazione dei corretti limiti dell’utilizzo dell’immagine dei minori. Anche questo tema – al pari di tutti gli aspetti legali connessi alla fotografia (ed in particolare della fotografia di ritratto) - ha visto la sua rilevanza accrescersi enormemente in ambiente digitale. In epoca social, infatti, la pervasività del mezzo è tale da moltiplicare esponenzialmente la diffusione dell’informazione, con ogni intuibile conseguenza.

Proviamo a fare un po’ di chiarezza.
Occorre anzitutto intendersi sul concetto di ritratto, che, ai fini che qui rilevano, altro non è che un’immagine (non solo e non necessariamente fotografica) in cui siano “riconoscibili le sembianze di una persona determinata”.
Il diritto all’immagine è un diritto assoluto e personalissimo, disciplinato dall’art. 10 cod. civ e dagli artt. 96 e 97 della legge sul diritto d’autore (l. 633/1941).
La regola generale in tema di esposizione, riproduzione, pubblicazione del ritratto di una persona subordina la legittimità della stessa all’espressione del “consenso”, (art. 96 l. aut.), salvo che ricorrano le ipotesi derogatorie stabilite dal successivo art. 97 l.aut. (notorietà del soggetto ritratto; ufficio pubblico ricoperto; necessità di giustizia e polizia; scopi scientifici, didattici o culturali; fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico), e sempre che la pubblicazione non sia comunque di pregiudizio all’onore, reputazione e decoro della persona ritratta.

Ciò detto in linea generale, con specifico riferimento all’immagine dei minori vengono in ulteriore considerazione:

- la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20.11.1989 (ratificata dall’Italia con legge 176/1991), secondo cui nessun fanciullo può essere oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione, e deve perciò essere adeguatamente protetto (art. 16);

- il codice deontologico dei giornalisti, che, richiamando la Carta di Treviso del 5.10.1990 (come successivamente integrata), eleva a rango primario rispetto al diritto di cronaca e di critica la tutela della personalità del minore, sicché il secondo deve cedere nei confronti del primo, demandando al giornalista la responsabilità di valutare se la pubblicazione sia davvero nell’interesse del minore;

- il codice della privacy (nella sua versione di adeguamento al Regolamento U.E. 679/2016), di cui al D. Lgs. 101/2018, il cui art. 2 quinquies prevede che i minori possano prestare il consenso al trattamento dei dati personali solo a partire del 14 anni (contro i 16 della versione precedente), facendo sì che al di sotto di tale soglia il consenso al trattamento debba essere dato da entrambi i genitori;

- il codice del processo penale minorile, che prevede il divieto di pubblicazione e divulgazione, con qualsiasi mezzo, di notizie o immagini idonee a consentire l’identificazione del minorenne comunque coinvolto in un procedimento (D.P.R. 488/88, art. 13).

Risulta evidente, in tale contesto, come la pubblicazione di immagini dei minori sia tutt’altro che agevole, come recenti sentenze dei Tribunali hanno confermato.
Con riferimento al post su Facebook di una bambina che partecipava a un defilé di moda, in particolare, ne è stata ritenuta abusiva la pubblicazione in quanto non autorizzata dal padre separato (affidatario in regime condiviso), ma solo dalla madre, pur essendosi esclusa la sussistenza di un danno risarcibile stante la presenza dello stesso padre alla medesima sfilata (Trib. Ravenna, 15.10.2019). Analogamente aveva deciso altra corte nel caso di pubblicazione su Facebook dei figli del proprio compagno avuti da precedente relazione (Trib. Rieti, 7.3.2019).
In altro caso, la pubblicazione on line dell’immagine di una showgirl a spasso per Milano con la propria figlia è stata giudicata abusiva, in quanto, se l’obbligo del consenso poteva ritenersi derogato nei confronti della madre, per via della sua notorietà, non altrettanto poteva dirsi per la figlia, e non ravvisandosi un interesse pubblico alla diffusione del ritratto della minore (Trib. Milano, 23.12.2013).
In altro interessante caso, questa volta in Austria, è stata la figlia a insorgere nei confronti dei genitori che, negli anni, hanno pubblicato centinaia di immagini della stessa in situazioni intime, condividendole con i propri amici.
Viene da chiedersi, in tempi attuali, come farebbe Sally Mann a pubblicare un libro come “Immediate family” …

In conclusione.
In tema di immagini dei minori, l’interesse primario e assoluto è costituito dalla tutela dello sviluppo armonioso e completo della personalità del minore. Al cospetto di tale interesse, tutte le ipotesi derogatorie sull’obbligo del consenso - che in questo caso non può mai essere presunto, come a certe condizioni è ravvisabile nei confronti degli adulti - debbono cedere e/o comunque sono soggette ad essere interpretate restrittivamente da parte del giudice.
Pur non sussistendo un divieto assoluto di pubblicazione, diffusione e circolazione dell’immagine (nel qual caso sarebbe stato agevole sancirlo in termini chiari da parte del legislatore), la cautela è quindi d’obbligo. Si rende pertanto necessaria un’attenta valutazione ed un bilanciamento degli interessi contrapposti: il diritto di critica e cronaca e di libera manifestazione del pensiero (tra cui rientra peraltro anche la pubblicazione di immagini a scopo culturale), da una parte; il diritto del minore alla protezione del proprio sviluppo armonioso in assenza di turbative.

ESISTE IL PLAGIO IN FOTOGRAFIA?

date » 08-04-2025 16:59

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tags » esposizione, mostra, fotografia, catalogo, diritto, autore, corpus, stampe, plagio,

waters_isgro__.jpgConfronto tra la copertina del disco di Roger Waters "Is this the life we really want" e il particolare di un'opera di Emilio Isgrò

Uno dei temi su cui sovente ci si interroga in materia di diritto d’autore è quello del “plagio” in fotografia. Se sia o meno configurabile, anche solo in teoria, e quali possano eventualmente essere le forma di tutela.
Sebbene il termine “plagio” venga comunemente utilizzato in materia di diritto d’autore, sia in dottrina che in giurisprudenza, non se ne rinviene una definizione legislativa.
O meglio, ve n’era una, ma in un ambito del tutto diverso da quello in esame. Esisteva infatti nel nostro codice penale il reato di “plagio”, previsto dall’art. 603 c.p. (“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito …”), che tuttavia è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo ed quindi è stato espunto dall’ordinamento (sent. Corte Cost. n. 96/81).
Il termine ha un’origine antica.
In latino, “plagium” significa “sotterfugio”, che nel diritto romano stava ad indicare la vendita come schiavo di un uomo che si sapeva essere libero, oppure la sottrazione di uno schiavo altrui tramite la persuasione o la corruzione dello stesso.
Ciò detto, oltre ad una connotazione e ad un significato linguistico di uso comune (come “soggezione ad altri”; es. “Tizio è completamente plagiato da Caio”), il termine, viene più specificamente accostato alle opere dell’ingegno false, falsificate, contraffatte ecc., in violazione dei diritti spettanti al loro creatore.
Anche l’accostamento al diritto d’autore si riporta alla storia romana.
Il poeta latino Marziale, vissuto nel del I° secolo d.C., in un suo epigramma, parla di plagio riferendosi ad un suo rivale poeta che aveva letto pubblicamente i suoi versi, facendo finta che fossero i propri (“Si dice in giro, Fidentino, che tu le mie poesie | reciti in pubblico come se fossero le tue. | Te le regalerò, se vuoi che si dicano mie: comprale | se vuoi che si dica che sono tue, e non saranno più mie”).

In linea generale, si può affermare che in materia di diritto d’autore, con il termine “plagio” s’intende l’appropriazione, totale o parziale, degli elementi creativi di un’opera altrui, nella loro imitazione servile, così da ricalcare in modo parassitario quanto da altri ideato ed espresso in una forma determinata e identificabile.
Con tale operazione il plagiario intende appropriarsi della paternità dell’opera altrui, attribuendola a sé stesso. Ciò con violazione dei diritti morali e dei diritti patrimoniali spettanti all’autore. Tra questi ultimi, in particolare: il diritto esclusivo di pubblicare l’opera (art. 12, comma 1 l. aut.); il diritto esclusivo di riprodurre l’opera (art. 13 l. aut.); il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12, comma 2, l. aut.); il diritto esclusivo di distribuzione, commercializzazione e messa a disposizione dell’opera (art. 17 l. aut.).

Il plagio va distinto dalla contraffazione e dal cd. falso d’autore.
Nella contraffazione, infatti, l’autore dell’opera contraffatta non intende affatto spacciarla per propria, ma, al contrario, la riconosce (e la vanta) come altrui, il più delle volte al fine di trarne un illecito profitto. La contraffazione determina la violazione dei diritti di natura patrimoniale: si consideri, ad esempio, la pubblicazione editoriale di fotografie con attribuzione al suo autore in assenza del suo consenso alla riproduzione.
Naturalmente, essa può concretizzarsi anche nella fabbricazione di un falso vero e proprio, come la riproduzione pedissequa di un’opera effettivamente esistente o esistita (es. una determinata opera pittorica, una scultura).
Fattispecie ben più diffusa sul mercato è invece quella del cd. falso d’autore, che consiste nella creazione di un’opera (non esistente nella realtà), ma riproducente lo stile e le modalità espressive di un altro artista (generalmente famoso e quotato): in questo caso la fattispecie dà luogo alla violazione dei soli diritti morali d’autore.
Alla base di questi casi vi è quasi sempre un’operazione truffaldina.
Si pensi ai noti casi dei falsi dipinti “Modigliani”, di cui circolano nel mondo molteplici esemplari (recentemente in una importante mostra genovese ne sono stati scoperti diversi, peraltro dati per autentici da autorevoli critici d’arte e già presenti in cataloghi), oppure al caso delle false sculture di Alberto Giacometti, realizzati con tecnica e forme pressoché indistinguibili dall’olandese Robert Driessen (chi volesse può approfondire l’argomento tramite il documentario presente sulla piattaforma Netflix).

Vale la pena citare anche la famosa burla di Livorno, dove alcuni ragazzi fecero ritrovare nell’Arno, nei pressi della casa dove aveva vissuto Modigliani, alcune sculture lapidee da loro realizzate con lo stile del famoso artista. In questo caso non vi era un intento truffaldino (furono infatti gli stessi autori a rivelarsi), ma quello di mettere alla berlina il mondo della critica d’arte.

Vi è anche il caso – sperimentato da chi scrive - di chi, su commissione, faccia realizzare un quadro nello stile di un famoso artista (vivente o defunto) non a scopo commerciale ma per il solo piacere (ed il vanto) di poter millantare di avere in casa l’opera di un grande maestro.

Per completezza, è opportuno menzionare anche il cd. “plagio evolutivo”, intendendosi per tale, in base alla giurisprudenza, la rielaborazione non autorizzata, pur se a sua volta dotata di forma creativa nuova, di un’opera precedente altrui.
L’ipotesi in esame riguarda in questo caso la violazione dei principi espressi degli art. 4 e 18 della legge 633 del 1941 (l. aut.). La prima norma è diretta a proteggere “le elaborazioni di carattere creativo dell'opera stessa quali (…) le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell'opera originaria”, (…), fatti salvi i diritti esistenti sull’opera originaria. La seconda attribuisce al titolare dell’opera il diritto esclusivo di “elaborare, modificare, trasformare” la propria opera (qualche anno fa la Suprema Corte ha ritenuto la sussistenza di un plagio evolutivo nella realizzazione non autorizzata, e quindi abusiva, del famoso pupazzo umanoide detto “Gabibbo”, in quanto ritenuta elaborazione creativa di altro preesistente pupazzo, adottato quale mascotte della squadra americana di basket della Western Kentucky University; cfr. Cass. Civ. Sez. I, 6 giugno 2018 n. 14635, Riv. Dir. Ind., 2019, 2, II, 57).

Va detto che, in materia di opere fotografiche, non esistono (o, almeno, chi scrive non ha rinvenuto) precedenti riguardanti il tema del plagio (salvo il caso – di estremo interesse – di cui si dirà oltre di plagio di fotografie realizzate con tecnica pittorica).
Utilizzo non a caso il termine “opere fotografiche” e non “fotografie”, in relazione alla nota tripartizione presente nel nostro ordinamento tra “fotografie creative” (art. 2, n. 7, l. aut.), dotate delle pienezza dei diritti alla stregua di qualsiasi altra opera dell’ingegno, “fotografie semplici” (art. 87, 1° comma, l. aut.), tutelate nella sola forma dei cd. diritti connessi e “fotografie documentali” (art. 87, 2° comma, l. aut.), prive di tutela alcuna.

Solo in presenza di un’opera creativa, riconoscibile come tale, è infatti astrattamente possibile parlare di plagio. Ciò con la fondamentale precisazione che la legge non tutela l’idea in sé ma la forma della sua espressione, intesa cioè come risultato dell’attività intellettuale dell’autore: le idee, infatti, non ricevono protezione nel nostro ordinamento bensì le modalità con cui esse vengono realizzate e cioè la forma esterna di rappresentazione (principio costantemente ribadito in giurisprudenza poi normato nella convenzione internazionale TRIP’s – Trade related Intellectual Property Rights, che nell’art. 9, n. 2) espressamente enuncia: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti in quanto tali”. Tra le più recenti pronunce vedasi Cass. Civ. sez. I, 29 Maggio 2020, n. 10300, Riv. Dir. Ind., 2020, 2, 345).

Stante la citata scarsità di materiale giurisprudenziale e dottrinale in materia, si può azzardare una riflessione, sul piano analogico, in relazione alle opere d’arte visuali, e segnatamente alle opere figurative.
A tale proposito intendo fare riferimento a due casi giudiziari: il caso Vedova e il caso Isgrò.
Nel primo, una galleria d’arte aveva posto in commercio (tramite televendita), alcuni quadri di un determinato autore, i quali, sia pur con dimensioni diverse e più piccole, risultavano imitativi delle opere dell’artista informale Emilio Vedova (defunto nel 2006, i cui diritti sono detenuti dalla Fondazione a lui intitolata).
Ponendo correttamente l’accento sulla sola forma espressiva e non sull’idea (e tanto meno sul pregio artistico o sul prezzo delle opere), il Tribunale e la Corte d’appello di Milano, svolto con l’ausilio di una consulenza tecnica l’esame comparativo dei dipinti, sono giunti a ritenere la sussistenza del denunciato plagio. Venivano in particolare in rilievo le medesime masse cromatiche e l’uguale localizzazione dei colori. Ciò partendo del presupposto che ogni artista abbia una riconoscibile impronta, una compiutezza espressiva e uno “scarto semantico” che nel caso di specie risultavano imitati/riprodotti nell’opera plagiaria, a nulla rilevando elementi di dettaglio quali la dimensione più ridotta (e quindi anche più commerciabile) dei quadri e l’uso della spatola anziché del pennello.
La Suprema Corte ha confermato le due sentenze di merito, richiamando anzitutto l’art. 171, 1° comma, l. aut., che sanziona penalmente il fatto di chi “senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma, a) riproduce …, vende o mette in vendita o pone altrimenti in commercio un’opera altrui”. Nella pronuncia viene inoltre confermata la sussistenza del plagio quando l’opera plagiaria abbia mutuato dall’opera plagiata il cd. nucleo individualizzante o creativo, ricalcando in modo pedissequo quanto da altri ideato ed espresso in forma determinata e identificabile. Al contrario, afferma la Corte, il plagio è da escludersi allorché la nuova opera si fondi sì sulla stessa idea ispiratrice, ma si differenzi negli elementi essenziali che ne caratterizzano la forma espressiva (Cass. Sez. I, 26 gennaio 2018 n. 2039, Foro it., 2018, 3, I, 855).

Il secondo caso ha visto contrapporsi il noto artista Emilio Isgrò e la casa discografica Sony Music Entertainment e ha avuto ad oggetto la copertina del disco di Roger Waters (già fondatore e membro dei Pink Floyd) intitolato “Is this the life we really want?”.
L’artista italiano aveva agito in via cautelare davanti al Tribunale per ottenere l’inibitoria della commercializzazione, diffusione e distribuzione dell’involucro del disco, in quanto ritenuto un plagio delle sue opere, ed in particolare di quella intitolata “Cancellature”, del 1964.
Ed infatti, la tecnica della cancellatura da un testo scritto riprodotto sulla copertina, da cui emerge il titolo dell’album, appare analoga, per non dire identica, a quella da molti anni utilizzata da Isgrò nelle sue opere: linee nere, tracciate in modo irregolare, che lasciano trasparire alcuni segni grafici sottostanti, mettendo in evidenza le residue parole risparmiate dalle cancellature.
Anche in tale caso, il Giudice muove dal corretto assunto per cui la protezione del diritto d’autore non ha ad oggetto le idee, ma solo ed unicamente le forme in cui esse vengono espresse. Messa da parte ogni considerazione riguardo all’idea sottesa alle due opere (che peraltro si assumeva essere differente), il Collegio si è concentrato sulle seguenti questioni: a) accertare il carattere creativo/artistico delle opere di Emilio Isgrò, espresse in quella data forma (cancellature); b) effettuare una valutazione comparativa delle opere di Isgrò rispetto al materiale che ricopre il supporto fonografico (CD e disco in vinile) onde verificare se il secondo costituisca una riproduzione delle prime.
Essendosi data risposta affermative ad entrambe le questioni (la seconda sostenuta anche dalla percezione da parte dei critici musicali e dei critici d’arte, che hanno immediatamente associato la copertina dell’opera discografica di Roger Waters a quella di Emilio Isgrò), il Giudice ha accolto la domanda del ricorrente, inibendo la distribuzione della copertina del disco (Trib. Milano, Sez. Impresa, ord. 25 luglio 2017).
Per i curiosi del finale dirò che Isgrò e Waters, con un comunicato congiunto del 2018, previa espressione dei sentimenti di stima reciproca, hanno dichiarato di aver trovato un accordo prevedente la rinuncia dell’artista italiano alla propria istanza, con conseguente via libera alla distribuzione del disco. Non è dato conoscere se ciò abbia previsto una qualche forma di compensazione (il comunicato si può leggere su il Post, 31 gennaio 2018; https://www.ilpost.it/2018/01/31/isgro-waters-accordo/).


Si può azzardare a questo punto un parallelismo con l’opera fotografica, quella cioè, nella tripartizione presente nel nostro sistema, che presenti indubbi elementi di creatività, sia pur con tutti i limiti e le estensioni che tale concetto può assumere.
D’altra parte, se la fotografia è entrata a far parte (sia pur tardivamente) delle opere dell’ingegno protette ai sensi della legge sul diritto d’autore (come la pittura, la letteratura, la musica ecc.) non c’è ragione di escludere a priori l’applicazione degli stessi principi dettati in tema delle altre arti visive all’opera fotografica.

Non vi è dubbio, anzitutto, che sia possibile la “contraffazione”, nel senso sopra esplicato, intesa come riproduzione di un’opera fotografica esistente (in violazione dei diritti dell’autore) con attribuzione della paternità all’autore “contraffatto”. Come detto sopra, il caso più comune è quello della pubblicazione non autorizzata di immagini riferite ad un certo autore, in violazione dell’art. 171 l. aut. lett. a) l. aut.
Altro caso possibile è la riproduzione fotografica di una fotografia d’autore (in ipotesi anche da un catalogo), eventualmente falsificando anche il timbro e/o la firma (se esistenti) e immetterlo sul mercato. Ancor più facile sarebbe appropriarsi e realizzare una o più stampe di un file fotografico di cui l’ipotetico contraffattore sia venuto in possesso per qualche ragione, oppure che abbia semplicemente reperito sul web in un formato sufficientemente adatto alla stampa. La differenza rispetto alle ipotesi di un dipinto falsificato risiede qui nel fatto che la fotografia (sia da negativo che da file) è per sua natura riproducibile all’infinito ed il supporto non è necessariamente (o almeno non è più) un elemento intrinseco ed imprescindibile che caratterizza l’opera d’arte. Stesso discorso potrebbe valere per altre tecniche di riproduzione seriale delle opere d’arte: ad esempio le litografie, di cui sarebbe possibile tirare “N” copie ove lo stampo non sia stato spaccato dopo l’utilizzo compiuto dall’autore: il tema in discorso ci porta qui al celebre saggio risalente agli anni trenta del ‘900 di Walter Benjamin, di cui non è possibile qui trattare (L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, ripubblicato da Einaudi, 2011).
In linea del tutto teorica sarebbe anche pensabile realizzare ex novo (non riprodurre) una determinata fotografia d’autore, ammesso che sia possibile (e non lo è mai) avere a disposizione quello stesso soggetto, quel dato paesaggio, quella situazione e via dicendo (di fatto è un’ipotesi impraticabile). Per fare un esempio a tutti noto, se volessi riprodurre la celebre fotografia di Gianni Berengo Gardin della vettura ripresa da dietro sulla spiaggia davanti all’oceano, non solo dovrei ritrovare quella vettura con quella targa, ma anche la stessa luce e, soprattutto, lo stesso, identico cielo! Semplicemente impossibile.
Altre immagini (penso ad esempio alla fotografia di still life) potrebbero risultare meno complicate, ma parliamo sempre di ipotesi estreme. Ma soprattutto, ci si chiede, a quale scopo, dato che esisterà sempre l’opera originale?

Veniamo adesso al profilo del “plagio”, inteso come l’appropriazione di elementi creativi e autoriali espressi in determinate forme e modalità espressive.
Il dato di partenza, come più volte sottolineato, è che la tutela del diritto d’autore non protegge le idee alla base dell’opera ma soltanto la forma nella quale l’idea è esternalizzata.
Anche in questo caso, a mio avviso, non potrebbe escludersi a priori la possibilità del plagio, almeno in teoria. In pratica, occorre che il fotografo, autore di quella “imitazione parassitaria” che costituisce il fulcro del plagio, realizzi le proprie opere fotografiche con modalità formali ed espressive chiaramente riconoscibili e ben distinguibili, che ne connotino la cifra stilistica in modo inequivocabile. Il che non è facile ma non è affatto da escludersi.
Si pensi, ad esempio, ai fotomosaici di Maurizio Galimberti, realizzati attraverso la giustapposizione di molteplici stampe Polaroid riproducenti particolari del soggetto fotografato, ricomposti sapientemente a formare l’immagine complessiva. In questo caso, se l’idea è quella del ritratto, la forma esteriore è costituita dal mosaico nel suo complesso. A ben guardare, l’ipotesi in esame non è molto dissimile da quella del caso Isgrò, avendo la composizione dei frammenti del ritratto analoga natura delle cancellature sul testo: Isgrò cancella parti di testo per far emergere le restanti; Galimberti assembla frammenti del soggetto per fare emergere il ritratto nel suo complesso. In entrambi i casi la tecnica formale è ben definita e identificabile.

Stesso discorso potrebbe valere per tutti gli autori che abbiano una loro cifra stilistica ben determinata e riconoscibile, rispetto ai quali l’eventuale realizzazione di immagini del tutto simili non possano avere quello “scarto semantico” tale da renderle originali.
Penso ad esempio, per restare in Italia, ai paesaggi marchigiani di Mario Giacomelli, contrastati all’estremo con un lavoro in camera oscura fino al punto da renderli trasfigurati e astratti, oppure ai tagli di colore di Franco Fontana, simili a opere pittoriche e informali. Fuori dall’Italia, mi viene da pensare alle gigantesche allegorie baroccheggianti, dai colori accesi, di David Lachapelle.

In questi casi, non potrebbe a mio avviso escludersi che, sulla base degli stessi principi affermati dalla giurisprudenza sopra citata, anche in tema di fotografia sia possibile configurare un’ipotesi di plagio, nel senso fatto proprio sopra, tutelabile con gli strumenti offerti dalla legge sul diritto d’autore.

A conferma delle ipotesi appena tratteggiate si pone un interessante caso, in cui l’esistenza del plagio di un’opera fotografica è stato ritenuto sussistere non già tramite la realizzazione di un’altra fotografia, ma attraverso la pittura.
In pratica, un pittore aveva riprodotto in modo pedissequo, e successivamente pubblicizzato e posto in commercio, alcune fotografie di “still life” realizzate dal fotografo Mauro Davoli, con ciò violando – come ritenuto dal Tribunale – sia i diritti di utilizzazione economica sia il diritto morale. Per giunta, il pittore aveva inserito le fotografie delle opere pittoriche sul suo sito internet, accompagnate dall’indicazione “Fotografato da Mauro Davoli”, con l’evidente intento e conseguente risultato di creare confusione in relazione all’effettiva paternità delle opere e lasciando intendere che le fotografie del Davoli rappresentassero esse stesse le proprie opere pittoriche. Conseguentemente il Giudice ordinava in via cautelare l’inibizione dell’ulteriore realizzazione e commercializzazione delle opere, disponendo altresì il sequestro delle stesse (Trib. Milano, ord. 27 dicembre 2006, in Dir. Aut. 2007, 264, con nota di commento di Salvo Dell’Arte, “Opere fotografiche e plagio trasversale. Tutela cautelare”).
Il caso citato appare doppiamente interessante: anzitutto perché ha per oggetto il plagio di un’opera fotografica, di cui afferma pacificamente la configurabilità e accerta la sussistenza (primo precedente noto); in secondo luogo perché il plagio vede coinvolte opere d’arte visiva di diversa natura: da una parte opere fotografiche, dall’altra opere pittoriche (che la dottrina, nella nota di commento sopra citata definisce “plagio trasversale”). Un’ipotesi opposta a quella che normalmente dà luogo a controversie, e cioè della riproduzione fotografica di opere pittoriche: fattispecie che tuttavia non dà luogo a plagio, ma che rileva più semplicemente in quanto illecita riproduzione di opera dell’ingegno, quando ciò non sia autorizzato dall’autore.

IL CASO BUTTURINI.
QUANDO L'EDITING PUO' DIVENTARE LESIVO

date » 08-04-2025 16:50

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tags » fotografia, editing, martin, parr, butturini, london, cancel, culture, gorilla,

IMG_7408.jpgDoppia pagine del libro "London" di Gian Butturini
(Courtesy Archivio Gian Butturini)

La vicenda delle fotografie di Gian Butturini contenute nel libro “London”, l’accusa di razzismo e le conseguenze che ne sono seguite, ci offrono l’occasione per alcune riflessioni sulla potenziale lesività della fotografia di ritratto a seconda del suo utilizzo e del contesto in cui essa è pubblicata.

Prima di tutto i fatti.
Qualche anno fa Martin Parr, celebre fotografo Magnum, tra i più grandi collezionisti di libri fotografici al mondo, nonché tra i più influenti personaggi nel campo della fotografia contemporanea, si imbatte nel libro “London” di Gian Butturini.
Il libro, pressoché autoprodotto, edito nel 1969 in poche copie, era da anni ormai esaurito e introvabile; i pochi esemplari reperibili sul mercato dell’usato avevano (e hanno) prezzi molto elevati.
Per Martin Parr si tratta di un “gioiello abbandonato”, che merita di essere ripubblicato ed adeguatamente valorizzato.

Si mette così sulle tracce della vedova ed i figli dell’autore (scomparso nel 2006) e nel 2017 ne promuove una riedizione presso l’editore Damiani.
Non solo, organizza anche una mostra al Barbican Centre di Londra e un talk in occasione di Photo London.
Come indica nella prefazione, da lui curata, la “Swinging London” della metà degli anni ’60 era stata scarsamente rappresentata dai fotografi britannici, per lo più concentrati sugli aspetti fashion (David Bailey, Terence Donovan) che non a raccontare i cambiamenti della scena sociale e giovanile di quel periodo e la neonata cultura beat, che ben presto si estesero da Londra al resto del mondo.

A pubblicazione avvenuta, una studentessa britannica di antropologia, tale Mercedes Baptiste Halliday, alla quale il libro era stato regalato per il compleanno, si sofferma su una doppia pagina del libro, che ritrae, sulla sinistra, una donna nera, addetta ai biglietti, nel gabbiotto della metropolitana; sulla destra un gorilla in gabbia.
Disgustata e indignata, la giovane studentessa scatena una poderosa campagna di protesta contro il libro e il suo curatore, giudicando manifestamente razzista l’immagine (meglio, l’accostamento delle due immagini) e chiedendone il ritiro dal mercato.

L’impatto della campagna è devastante: Martin Parr si dimette dalla Direzione del Festival di fotografia di Bristol; si scusa per non essersi accorto dell’accostamento razzista tra le due immagini chiedendo all’editore, non solo il ritiro del libro, ma addirittura di mandarlo al macero.
Va detto a questo punto che grazie all’impegno dei figli di Gian Butturini (Marta e Tiziano), il libro è stato recuperato dall’editore, e, pur non essendo possibile distribuirlo secondo i canali ufficiali, è stato quanto meno salvato dall’estinzione ed è acquistabile direttamente rivolgendosi loro (www.gianbutturini.com).

La vicenda è stata (ed è) oggetto di ampio dibattito, potendo essere analizzata sotto molteplici profili: fotografico, politico, culturale, sociologico e – mi permetto di aggiungere – giuridico.
Come ha ben osservato Michele Smargiassi (La Repubblica, 22.7.2020; Fotocrazia, 30.9.2020), la vicenda è stata un’occasione perduta per riflettere su vari temi: dalla lettura dell’immagine al linguaggio della fotografia, dalla libertà di espressione alla “Cancel Culture”,
L’assoluta mancanza di una qualsiasi riflessione critica su tali profili e la “resa incondizionata” di Martin Parr, hanno rischiato di mandare al macero un libro sull’altare del “politically correct”.
Senza istruttoria e senza appello, la fotografia è passata senz’altro nell’archivio delle immagini razziste. Poco importa se la storia personale del suo autore, il suo percorso umano e fotografico conducessero piuttosto nella direzione opposta. Poco importa se quelle due immagini accostate potessero essere suscettibili di una diversa lettura, forse meno immediata ma non per questo meno autentica: le due gabbie sono le rappresentazioni delle segregazioni che l’autore coglieva nella Londra di allora, segnata dalle emarginazioni e dal lavoro alienante riservato agli immigrati. Una “metafora della dignità che resiste allo scherno” (Smargiassi, cit.).
Ed in ogni caso, se contrariamente alle intenzioni del suo autore, all’accostamento delle due immagini potesse attribuirsi un effetto “razzista” (e non neghiamo certo che, in astratto, questa sia una possibile lettura), è possibile che ciò possa portare alla distruzione di un libro? Un atto che ci riporta a tempi e regimi oscuri, purtroppo anche recenti, che speravamo di aver lasciato alle nostre spalle.

Ciò detto, la vicenda suscita interesse anche per una riflessione sugli aspetti legali che un’immagine recante il ritratto di una persona può generare a seconda del contesto e delle modalità di pubblicazione: in definitiva dell’editing.
A prescindere dalle situazioni e delle circostanze che, in assenza del consenso, giustificano la divulgazione del ritratto (per il che ci si permette di rinviare al mio “Manuale di Sopravvivenza per fotografi”, Emuse), la legge prevede infatti che siano sempre rispettate le esigenze di tutela dell’onore, della reputazione e del decoro della persona ritrattata.
La tutela di tali diritti è espressamente sancita dal secondo comma dell’art. 97, l.aut., che funge da norma di chiusura del sistema, stabilendo i limiti estremi oltre i quali la divulgazione del ritratto diviene comunque illecita.
Orbene, la violazione della reputazione, del decoro e dell’onore della persona può essere determinata sia dal contenuto (come nel caso del soggetto ritratto in contegno in sé osceno o sconveniente), sia dalle modalità con cui avvenga la diffusione del ritratto.
In altri termini, la fotografia di ritratto può non essere di per sé stessa lesiva dei diritti tutelati dalla norma, ma lo può divenire per il contesto, il modo o il luogo in cui viene rappresentato.

Esaminiamo la fotografia della donna nera ritratta da Butturini, “come se” la pagina accanto fosse bianca.
Il ritratto, in sé e per sé non appare lesivo: la donna è raffigurata totalmente abbigliata, la sua posa non è sconveniente, l’espressione è triste ma non afflitta. Un ritratto che potrebbe essere definito “muto”, né indecente, né indecoroso.
Le cose cambiano completamente quando interviene l’editing, che pone accanto all’immagine della donna quella di un gorilla in gabbia. In questo caso la lettura dell’immagine può assumere una valenza del tutto nuova, sia che l’accostamento fosse voluto (ed in questo caso lo era), sia che fosse casuale.
Sia chiaro, non intendo dire che la lettura “corretta”, cioè l’interpretazione del dittico sia quella che ha portato all’accusa di razzismo (anzi la mia opinione è del tutto opposta), ma non vi è dubbio che la questione si ponga (e si è infatti posta fino alle sue estreme conseguenze).
Ciò che preme qui evidenziare è quindi che la potenziale lesività di una fotografia che veda ritratta una persona non dipenda solo dai contenuti della fotografia stessa, quanto dal contesto della pubblicazione.
Del resto, non è il primo caso che si è posto nella storia della fotografia.
Esso ci riporta, sia pur in circostanze diverse, al caso, del doppio ritratto preso da Robert Doisneau, uno dei maestri della fotografia umanista francese, in uno dei bistrot parigini che era solito frequentare.

La fotografia raffigura il muto dialogo tra una giovane e bella ragazza e un anziano signore al bancone, davanti a quattro bicchieri di vino. L’ambiguità della scena, buona per diverse interpretazioni, ha fatto sì che l’immagine, una volta ceduta all’agenzia, dopo la sua legittima e rispettosa pubblicazione in una photostory su «Life» sulla vita nei caffè parigini, divenisse poi oggetto di controversia giudiziaria quando la stessa venne pubblicata a illustrazione di un servizio sull’alcolismo e successivamente per un servizio sulla prostituzione.

Anche in questo caso, infatti, la fotografia era da ritenersi “neutra” dal punto di vista della lesività. Senonchè la reputazione, il decoro e l’onore dei soggetti ritratti ne risultavano potenzialmente lesi per effetto del contesto delle successive pubblicazioni: nel primo caso facendo passare i due soggetti per possibili alcolisti; nel secondo, per una prostituta lei ed un cliente o, peggio, un lenone lui.
In questo caso il differente editing e la differente, possibile lettura, non era data dall’accostamento con altra immagine (come nel caso Butturini), ma dalla contestualizzazione, dal rapporto tra la fotografia ed il racconto di cui costituisce il corredo.
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