FOTOGRAFIA SEMPLICE E CREATIVA.
IL CASO DELLA FOTOGRAFIA DI FALCONE E BORSELLINO
date » 07-04-2025 15:45
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Falcone, Borsellino, Tony Gentile, semplice, creativa, diritti, fotografia, mafia, tutela, magistrati, palermo,
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Palermo, 1992
(c) Tony Gentile
Per chi si occupa di diritto della fotografia, la vicenda della arcinota immagine (giustamente definita “iconica”) di Tony Gentile, ritraente i due magistrati vittime della mafia, a pochi mesi dagli attentati della terribile estate del ’92, costituisce un caso imprescindibile.
Il caso è già stato raccontato e commentato in due articoli (pubblicati su Noc Sensei, nella sezione "Fotografia: diritti, obblighi privacy" in occasione delle precedenti decisioni di merito: il primo, a seguito della sentenza del Tribunale di Roma; il secondo, a seguito della sentenza di appello.
La disputa vedeva contrapposto il fotografo Tony Gentile, autore del celebre scatto, contro la RAI Radiotelevisione Italiana. Quest’ultima, infatti, decorsi venti anni dalla realizzazione della fotografia, l’aveva mandata in onda più volte e pubblicata sul proprio sito web, a corredo di una campagna di sensibilizzazione in tema di legalità, senza alcuna autorizzazione da parte del suo autore e senza la corresponsione di alcun compenso.
I due giudizi di merito si sono conclusi sfavorevolmente per il fotografo, con il rigetto di tutte le domande proposte.
Ora, con recente sentenza (pubblicata in data 20 Dicembre 2024), la prima sezione della Corte di Cassazione, ha messo la parola fine alla controversia, pronunciandosi per l’inammissibilità del ricorso, riaffermando principi già esposti dalla Corte di Appello, ma di fatto lasciando senza risposta una serie di censure concernenti il cd. “doppio regime” di tutela della fotografia, a secondo che la stessa sia da qualificare come “semplice” o “creativa”.
L’attribuzione di una fotografia all’una o all’altra categoria comporta importanti ricadute in termini di diritti:
- nel caso della fotografia cd. “semplice”, all’autore sono riconosciuti i soli “diritti connessi”, cioè di “riproduzione, diffusione e spaccio”, che peraltro si esauriscono con lo scadere dei venti anni dallo scatto;
- nel caso della fotografia “creativa”, all’autore è accordata la piena tutela ai sensi della legge sul diritto d’autore, essendo la fotografia considerata come opera dell’ingegno (alla stregua di tutte le altre: opere letterarie, musicali, della scultura, della pittura, del cinema ecc.). I diritti che ne conseguono, morali e patrimoniali, durano per tutta la vita dell’autore e, in favore degli eredi, fino a 70 anni dalla morte.
Nel giudicare la vicenda - pur abbandonato il riferimento alla mancanza di contenuto “artistico” su cui si era incentrato il Tribunale – la Corte di Appello e la stessa Cassazione tengono fermo il punto del “carattere creativo” o meno della fotografia, quale discrimen per ascrivere la fotografia all’una o all’altra categoria.
Ad avviso dei giudici, infatti, la peculiarità dell’immagine, il suo carattere “particolarmente toccante” non risiede nel suo carattere creativo ma nell’eccezionalità dei soggetti, ovvero dei due magistrati, simbolo della lotta alla mafia, trucidati poco tempo dopo quello scatto.
Ora, non c’è alcun dubbio che il successo di quella fotografia è dipeso dai due soggetti ripresi e dalle loro tragiche morti, che hanno lasciato un segno indelebile nella storia e nella vita civile del nostro Paese.
Questo elemento, che è del tutto ovvio, non è sufficiente – di per sé - ad escludere il carattere “creativo” di quella fotografia; né può essere utilizzato per incidere sulla sua valutazione, in senso negativo.
A ben guardare, quell’immagine rappresenta un momento di intesa tra due persone, due amici, due colleghi (ma sarebbe lo stesso se fossero anche degli sconosciuti), che ritrae l’attimo fugace di un sorriso ed è accompagnata da una costruzione compositiva armonica e simmetrica. Il fatto che sia ritenuta “toccante” alla luce della sorte dei due protagonisti è del tutto irrilevante ai fini della sua qualificazione.
Si consideri tra l’altro che tra gli elementi selezionati dalla giurisprudenza per attribuire valore creativo ad una fotografia vi è anche la “capacità di cogliere l’attimo”, che è proprio ciò che si riscontra in questa immagine.
Ma ancor prima, dovrebbe considerarsi che l’atto del fotografare è in sé stesso un atto creativo in quanto si basa su una sintesi di capacità personali che si manifesta spesso come una sorta di illuminazione improvvisa, in una modalità di pensiero “produttiva”, che restringe e concentra il campo percettivo e cognitivo e che è preceduto da una serie di momenti preparatori (la scelta dell’inquadratura, della pellicola, dei settaggi della fotocamera, l’uso o meno del flash, dell’ottica).
Il fotografo compie sempre un’operazione di “prelievo dalla realtà”, che successivamente continuerà a vivere in modo autonomo e indipendente dalla realtà da cui è tratto. È del tutto illusorio ritenere che la fotografia possa semplicemente riprodurre il reale: in qualunque fotografia prevale lo sguardo del fotografo e il risultato non è mai la realtà ma qualcosa che la richiama o la cita.
C'è poi da considerare un altro aspetto. Ed è un aspetto che riguarda il linguaggio e il ruolo della fotografia, la quale (in Italia) è ancora considerata dai più con indulgente simpatia; di certo la meno rilevante tra le opere dell’ingegno, come testimonia il fatto che essa è entrata in tale novero solo nel 1979.
Esistono tante specie di fotografia: il reportage, la foto di moda, pubblicitaria, concettuale, artistica, sportiva, di ritratto, di cronaca ecc.
Ognuna di essa ha le proprie regole, le proprie specificità, le proprie peculiarità, che sarebbe bene conoscere per poterne giudicare i contenuti.
Il fatto è che il giudice - che nel caso in esame non ha neppure ritenuto di avvalersi dell’opera di un consulente tecnico - non ha né le capacità né le conoscenze per esprimere un giudizio sull’aspetto creativo o meno di una fotografia. A meno che per propria cultura personale conosca i temi sopra menzionati, nella pressoché assoluta generalità dei casi al giudicante manca la grammatica per scandagliare, valutare e esprimersi su un concetto così delicato e sfuggente come quello della creatività (in assoluto ed in particolare in fotografia).
D’altra parte, non sarebbe neppure giusto caricare sui magistrati il compito di una valutazione che spesso è talmente soggettiva e discrezionale, fondata sul bagaglio culturale di ogni singolo giudicante da divenire potenzialmente arbitraria.
Un’ultima notazione riguarda il significato attuale del persistente regime del “doppio binario”.
La durata limitata dei diritti connessi alla categoria “fotografia semplice” era giustificata per il fatto che, quando tale nozione è stata introdotta (nel 1941), la fotografia aveva un’importantissima funzione di medium. In un’epoca in cui l’analfabetismo in Italia era ancora elevatissimo, la televisione non esisteva ed in cui la quasi totalità dell’informazione passava attraverso la carta stampata, la limitazione dei diritti di privativa sulle immagini aveva una sua specifica funzione.
Non per niente tra gli anni ’20 e gli anni ’60 si colloca l’epoca d’oro delle riviste e dei Magazines ospitanti fotografie (Life, Vu, Regards, Paris Match, Illustrazione Italiana, Epoca, Europeo ecc.).
Ottant’anni dopo, in un contesto tecnologico completamente cambiato, tale categoria appare del tutto anacronistica. Nel mondo digitalizzato, del web, dei social, delle tv satellitari, l’informazione generale non passa più attraverso la fotografia, la quale – in disparte l’aspetto artistico – si configura, anche nel fotogiornalismo, come un punto esclamativo su un articolo, una notizia, un servizio. Il reportage non è più (o non è solo) quello del medico di campagna di Eugene Smith, che raccontava su Life agli americani quella storia, ma è sempre più un lavoro di riflessione e indagine, in cui l’aspetto informativo non sempre è preponderante.
Ecco allora che, data la sostanziale incertezza nel tracciare una netta linea di demarcazione tra fotografia oggetto di diritto d’autore o di diritto connesso, appare quanto mai necessario indirizzarsi verso il superamento del regime del cd. “doppio binario”.
Ciò con l’introduzione, a livello legislativo, di un unico sistema che conceda un’uniforme protezione alle opere fotografiche, fondato non già su valutazioni di tipo estetico-creativo, ma sulla presenza di un minimo di prestazione personale da parte del fotografo.
TUTELA AUTORIALE.
IL BARCONE DEI MIGRANTI DI MASSIMO SESTINI
Barcone di migranti nel canale di Sicilia.
(c) Massimo Sestini
Il caso ci riporta ancora una volta sul tema “fotografia semplice e creativa”, già trattato a proposito della famosa foto di Tony Gentile ritraente Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Vi torniamo perché, ancora una volta, il Tribunale di Roma (sent. n. 7659 del 26.05.2020) ha ritenuto di escludere il valore creativo di un’altra famosa fotografia, di cui è autore Massimo Sestini, relegandola (si fa per dire) alla categoria “reportage di fotogiornalismo”, ed in quanto tale – ad avviso del giudicante – non meritevole di rientrare tra le opere protette come diritto d’autore.
Ma prima di tutto i fatti.
Nel 2015 la RAI, nel corso del TG1, proietta alle spalle del conduttore la fotografia del barcone stracolmo di migranti durante la traversata del canale di Sicilia. Lo stesso avviene nel programma Linea Notte di RAI3. Il tutto, ovviamente, senza alcuna richiesta all’autore, senza autorizzazione e senza riconoscimento di alcun corrispettivo. La fotografia era stata semplicemente reperita in rete, prelevata e utilizzata dalla redazione, in quanto ritenuta adatta a rappresentare il fenomeno degli sbarchi. E su questo nessun dubbio: la foto è infatti talmente rappresentativa da essere stata premiata con World Press Photo del 2014 (secondo premio nella categoria General News).
L’autore agisce in giudizio chiedendo dichiararsi l’utilizzo illegittimo della fotografia, la rimozione della stessa ed il risarcimento del danno.
Va detto che la domanda dell’autore/attore è stata accolta: non già, tuttavia, riconoscendo il valore “autoriale” della fotografia, ma come fotografia “semplice”, la quale attribuisce al suo titolare il diritto esclusivo di utilizzarla economicamente (nel limite di 20 anni dalla sua produzione).
Ricordiamo che l’attribuzione all’una o all’altra categoria non è meramente nominalistica, ma comporta una rilevantissima ricaduta sotto il profilo dei diritti:
- nel primo caso (fotografia semplice), il fotografo gode dei cd. diritti connessi, cioè i diritti di “riproduzione, diffusione e spaccio”, che si esauriscono con lo scadere dei venti anni dalla produzione della fotografia;
- nel secondo caso (fotografia creativa o autoriale), all’autore è accordata la piena tutela dell’opera ai sensi della legge sul diritto d’autore, essendo la fotografia considerata come opera dell’ingegno (alla stregua di tutte le altre: opere letterarie, musicali, della scultura, della pittura, del cinema ecc.). I diritti che ne conseguono, morali e patrimoniali, durano per tutta la vita dell’autore e fino a 70 anni dalla sua morte.
Ciò premesso, vogliamo soffermarci su alcune considerazioni svolte dal giudicante.
Nella propria precedente pronuncia (caso Falcone-Borsellino), la motivazione del Tribunale si fondava tutta sull’assioma opera autorale-creativa = opera d’arte.
Qui il Tribunale si sofferma sull’individuazione dell’atto creativo, salvo però ricadere, ancora una volta, sul terreno instabile del carattere artistico della fotografia.
Secondo il collegio, l’atto creativo è caratterizzato per essere “espressione di un’attività intellettuale preponderante rispetto alla tecnica materiale, così che la modalità di riproduzione del dato fotografato trasmetta un messaggio ulteriore e diverso rispetto alla visione oggettiva di esso”.
E prosegue: “La fotografia è creativa quando è capace di evocare suggestioni o comunque di lasciare trasparire l’apporto personale del fotografo e non si limiti a riprodurre e documentare azioni e situazioni reali. L’apporto creativo deve potersi desumere da una precisa attività del fotografo, volta alla valorizzazione degli effetti ottenibili con l’apparecchio (prospettiva, cura della luce del tutto peculiari), o alla scelta del soggetto (intervenendo il fotografo sull’atteggiamento o sull’espressione, se non creando addirittura il soggetto stesso), purché emerga una prevalenza del profilo artistico sull’aspetto prettamente tecnico”.
Nel caso in esame – conclude il Tribunale – l’oggetto della fotografia e le modalità in cui è stata scattata, da un elicottero della Guarda di Finanza (in realtà era della Marina Militare) durante un’operazione di salvataggio, “depongono per la sua inclusione nella categoria del reportage fotografico”; non si individuano elementi rivelatori della sua natura artistica quali la predisposizione dello scenario, l’impiego di modelli (sic!) la scelta di particolari condizioni ambientali e meteorologiche, la realizzazione di effetti particolari.
Né può avere rilevanza la circostanza che la foto abbia ricevuto l’ambito premio del WPP: anzi è proprio questo un elemento che allontana la fotografia da ogni valore artistico, in quanto si tratta appunto di un concorso relativo a fotografia di carattere giornalistico.
Che dire?
Il giudice sembra anche qui muovere da un postulato: tutto ciò che è fotogiornalismo e documentazione è - per ciò solo – privo di qualunque valore creativo; tanto più se si considera che - ad avviso del Tribunale – sussiste piena equivalenza tra opera creativa ed opera d’arte.
Ancora si opera una confusione tra giudizi estetici e analisi giuridiche, sulla base dell’errata convinzione che creatività e artisticità esprimano lo stesso concetto.
Come già osservato, infatti, se è certamente vero che un’opera d’arte è un’opera creativa, non è necessariamente vero il contrario e parificare i due concetti costituisce un’operazione fuorviante e non corretta, che peraltro non trova riscontro nelle fonti normative.
La legge sul diritto d’autore prescinde da ogni valutazione estetica ma ha riferimento – come detto sopra – al solo valore creativo. Ciò con un’eccezione, che tuttavia conferma la tesi opposta a quella seguita dal Tribunale. Infatti, tale legge prevede che siano protette “le opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico”. Tale disposizione indica che solo per le opere del disegno industriale sia necessaria la contemporanea presenza del carattere creativo e del valore artistico.
Ciò detto, perché mai tutto ciò che è ascrivibile al fotogiornalismo dovrebbe essere di per sé privo di valore creativo? Forse che la finalità documentativo-informativa non può essere accompagnata da un elemento creativo?
Si pensi alla fotografia di uno dei più celebrati maestri del fotogiornalismo, James Natchwey. In tutti i suoi reportages, che raccontano e documentano la realtà di guerre e territori tormentati, spesso anche in modo molto crudo, è quasi sempre individuabile un elemento estetico (secondo i suoi critici estetizzante). Vogliamo dire che la sua fotografia, sol perché di reportage, è priva di elementi che - secondo gli stessi canoni usati dal Tribunale – ne evidenziano la creatività?
Si aggiunga che, contraddicendo sé stesso, è lo stesso Tribunale a indicare tra gli elementi dell’atto creativo, la “capacità di creare suggestioni”, valorizzandosi elementi quali la prospettiva, l’inquadratura e altri.
Ebbene: chi può negare il potente grado di suggestione evocata dalla fotografia di Sestini? Chi non ha provato, osservando quell’immagine, una forte emozione, immedesimandosi nella condizione di coloro che, a concreto rischio della vita propria e della propria famiglia, affrontano una traversata in condizioni terribili, spesso in fuga da guerre e devastazioni?
Ebbene quella fotografia, così come la foto del bambino siriano che giace morto sul bagnasciuga di una spiaggia turca, ha in sé il potere di smuovere le coscienze e non può certamente essere degradata a mera cronaca. Ed è per questo, a mio avviso, che tra le tante immagini che hanno raccontato e raccontano il fenomeno migratorio, è stata ritenuta meritevole di essere premiata con il WPP.
E sei poi volessimo concentraci sull’inquadratura, vogliamo forse dire che la ripresa aerea e perpendicolare, perfettamente disposta nel fotogramma, sul blu profondo del mar Mediterraneo non abbia un ruolo che travalica la mera riproduzione tecnica? E ciò senza contare le enormi difficoltà logistiche, organizzative, di preparazione e realizzazione dell’immagine, in condizioni precarie a bordo di un elicottero della Marina Militare.
Quanto al concetto di arte, ne abbiamo già scritto nel precedente articolo. Chi la definisce? In base a quali criteri? Qualcuno però un elemento artistico deve pure averlo trovato, in questa foto, acquistata ed esposta in due tra le più grandi collezioni del Regno Unito (una di queste è quella di Elton John).
La conseguenza del ragionamento del Tribunale, infatti è che una qualunque fotografia, magari sfocata o mossa, oppure semplicemente post-prodotta con Photoshop induca a individuare in essa un elemento “artistico” (peraltro spesso né ricercato né voluto), godendo così della tutela piena come opera d’autore, mentre la gran parte del fotogiornalismo resterebbe nel limbo della fotografia semplice.
La prossima fotografia, Massimo Sestini dovrebbe farla in studio, contro un fondale blu oltremare, con delle comparse a bordo di un gommone di cartone e ventilatore a generare il vento. Questa sì sarebbe una foto d’autore!
ESISTE IL PLAGIO IN FOTOGRAFIA?
Confronto tra la copertina del disco di Roger Waters "Is this the life we really want" e il particolare di un'opera di Emilio Isgrò
Uno dei temi su cui sovente ci si interroga in materia di diritto d’autore è quello del “plagio” in fotografia. Se sia o meno configurabile, anche solo in teoria, e quali possano eventualmente essere le forma di tutela.
Sebbene il termine “plagio” venga comunemente utilizzato in materia di diritto d’autore, sia in dottrina che in giurisprudenza, non se ne rinviene una definizione legislativa.
O meglio, ve n’era una, ma in un ambito del tutto diverso da quello in esame. Esisteva infatti nel nostro codice penale il reato di “plagio”, previsto dall’art. 603 c.p. (“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito …”), che tuttavia è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo ed quindi è stato espunto dall’ordinamento (sent. Corte Cost. n. 96/81).
Il termine ha un’origine antica.
In latino, “plagium” significa “sotterfugio”, che nel diritto romano stava ad indicare la vendita come schiavo di un uomo che si sapeva essere libero, oppure la sottrazione di uno schiavo altrui tramite la persuasione o la corruzione dello stesso.
Ciò detto, oltre ad una connotazione e ad un significato linguistico di uso comune (come “soggezione ad altri”; es. “Tizio è completamente plagiato da Caio”), il termine, viene più specificamente accostato alle opere dell’ingegno false, falsificate, contraffatte ecc., in violazione dei diritti spettanti al loro creatore.
Anche l’accostamento al diritto d’autore si riporta alla storia romana.
Il poeta latino Marziale, vissuto nel del I° secolo d.C., in un suo epigramma, parla di plagio riferendosi ad un suo rivale poeta che aveva letto pubblicamente i suoi versi, facendo finta che fossero i propri (“Si dice in giro, Fidentino, che tu le mie poesie | reciti in pubblico come se fossero le tue. | Te le regalerò, se vuoi che si dicano mie: comprale | se vuoi che si dica che sono tue, e non saranno più mie”).
In linea generale, si può affermare che in materia di diritto d’autore, con il termine “plagio” s’intende l’appropriazione, totale o parziale, degli elementi creativi di un’opera altrui, nella loro imitazione servile, così da ricalcare in modo parassitario quanto da altri ideato ed espresso in una forma determinata e identificabile.
Con tale operazione il plagiario intende appropriarsi della paternità dell’opera altrui, attribuendola a sé stesso. Ciò con violazione dei diritti morali e dei diritti patrimoniali spettanti all’autore. Tra questi ultimi, in particolare: il diritto esclusivo di pubblicare l’opera (art. 12, comma 1 l. aut.); il diritto esclusivo di riprodurre l’opera (art. 13 l. aut.); il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12, comma 2, l. aut.); il diritto esclusivo di distribuzione, commercializzazione e messa a disposizione dell’opera (art. 17 l. aut.).
Il plagio va distinto dalla contraffazione e dal cd. falso d’autore.
Nella contraffazione, infatti, l’autore dell’opera contraffatta non intende affatto spacciarla per propria, ma, al contrario, la riconosce (e la vanta) come altrui, il più delle volte al fine di trarne un illecito profitto. La contraffazione determina la violazione dei diritti di natura patrimoniale: si consideri, ad esempio, la pubblicazione editoriale di fotografie con attribuzione al suo autore in assenza del suo consenso alla riproduzione.
Naturalmente, essa può concretizzarsi anche nella fabbricazione di un falso vero e proprio, come la riproduzione pedissequa di un’opera effettivamente esistente o esistita (es. una determinata opera pittorica, una scultura).
Fattispecie ben più diffusa sul mercato è invece quella del cd. falso d’autore, che consiste nella creazione di un’opera (non esistente nella realtà), ma riproducente lo stile e le modalità espressive di un altro artista (generalmente famoso e quotato): in questo caso la fattispecie dà luogo alla violazione dei soli diritti morali d’autore.
Alla base di questi casi vi è quasi sempre un’operazione truffaldina.
Si pensi ai noti casi dei falsi dipinti “Modigliani”, di cui circolano nel mondo molteplici esemplari (recentemente in una importante mostra genovese ne sono stati scoperti diversi, peraltro dati per autentici da autorevoli critici d’arte e già presenti in cataloghi), oppure al caso delle false sculture di Alberto Giacometti, realizzati con tecnica e forme pressoché indistinguibili dall’olandese Robert Driessen (chi volesse può approfondire l’argomento tramite il documentario presente sulla piattaforma Netflix).
Vale la pena citare anche la famosa burla di Livorno, dove alcuni ragazzi fecero ritrovare nell’Arno, nei pressi della casa dove aveva vissuto Modigliani, alcune sculture lapidee da loro realizzate con lo stile del famoso artista. In questo caso non vi era un intento truffaldino (furono infatti gli stessi autori a rivelarsi), ma quello di mettere alla berlina il mondo della critica d’arte.
Vi è anche il caso – sperimentato da chi scrive - di chi, su commissione, faccia realizzare un quadro nello stile di un famoso artista (vivente o defunto) non a scopo commerciale ma per il solo piacere (ed il vanto) di poter millantare di avere in casa l’opera di un grande maestro.
Per completezza, è opportuno menzionare anche il cd. “plagio evolutivo”, intendendosi per tale, in base alla giurisprudenza, la rielaborazione non autorizzata, pur se a sua volta dotata di forma creativa nuova, di un’opera precedente altrui.
L’ipotesi in esame riguarda in questo caso la violazione dei principi espressi degli art. 4 e 18 della legge 633 del 1941 (l. aut.). La prima norma è diretta a proteggere “le elaborazioni di carattere creativo dell'opera stessa quali (…) le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell'opera originaria”, (…), fatti salvi i diritti esistenti sull’opera originaria. La seconda attribuisce al titolare dell’opera il diritto esclusivo di “elaborare, modificare, trasformare” la propria opera (qualche anno fa la Suprema Corte ha ritenuto la sussistenza di un plagio evolutivo nella realizzazione non autorizzata, e quindi abusiva, del famoso pupazzo umanoide detto “Gabibbo”, in quanto ritenuta elaborazione creativa di altro preesistente pupazzo, adottato quale mascotte della squadra americana di basket della Western Kentucky University; cfr. Cass. Civ. Sez. I, 6 giugno 2018 n. 14635, Riv. Dir. Ind., 2019, 2, II, 57).
Va detto che, in materia di opere fotografiche, non esistono (o, almeno, chi scrive non ha rinvenuto) precedenti riguardanti il tema del plagio (salvo il caso – di estremo interesse – di cui si dirà oltre di plagio di fotografie realizzate con tecnica pittorica).
Utilizzo non a caso il termine “opere fotografiche” e non “fotografie”, in relazione alla nota tripartizione presente nel nostro ordinamento tra “fotografie creative” (art. 2, n. 7, l. aut.), dotate delle pienezza dei diritti alla stregua di qualsiasi altra opera dell’ingegno, “fotografie semplici” (art. 87, 1° comma, l. aut.), tutelate nella sola forma dei cd. diritti connessi e “fotografie documentali” (art. 87, 2° comma, l. aut.), prive di tutela alcuna.
Solo in presenza di un’opera creativa, riconoscibile come tale, è infatti astrattamente possibile parlare di plagio. Ciò con la fondamentale precisazione che la legge non tutela l’idea in sé ma la forma della sua espressione, intesa cioè come risultato dell’attività intellettuale dell’autore: le idee, infatti, non ricevono protezione nel nostro ordinamento bensì le modalità con cui esse vengono realizzate e cioè la forma esterna di rappresentazione (principio costantemente ribadito in giurisprudenza poi normato nella convenzione internazionale TRIP’s – Trade related Intellectual Property Rights, che nell’art. 9, n. 2) espressamente enuncia: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti in quanto tali”. Tra le più recenti pronunce vedasi Cass. Civ. sez. I, 29 Maggio 2020, n. 10300, Riv. Dir. Ind., 2020, 2, 345).
Stante la citata scarsità di materiale giurisprudenziale e dottrinale in materia, si può azzardare una riflessione, sul piano analogico, in relazione alle opere d’arte visuali, e segnatamente alle opere figurative.
A tale proposito intendo fare riferimento a due casi giudiziari: il caso Vedova e il caso Isgrò.
Nel primo, una galleria d’arte aveva posto in commercio (tramite televendita), alcuni quadri di un determinato autore, i quali, sia pur con dimensioni diverse e più piccole, risultavano imitativi delle opere dell’artista informale Emilio Vedova (defunto nel 2006, i cui diritti sono detenuti dalla Fondazione a lui intitolata).
Ponendo correttamente l’accento sulla sola forma espressiva e non sull’idea (e tanto meno sul pregio artistico o sul prezzo delle opere), il Tribunale e la Corte d’appello di Milano, svolto con l’ausilio di una consulenza tecnica l’esame comparativo dei dipinti, sono giunti a ritenere la sussistenza del denunciato plagio. Venivano in particolare in rilievo le medesime masse cromatiche e l’uguale localizzazione dei colori. Ciò partendo del presupposto che ogni artista abbia una riconoscibile impronta, una compiutezza espressiva e uno “scarto semantico” che nel caso di specie risultavano imitati/riprodotti nell’opera plagiaria, a nulla rilevando elementi di dettaglio quali la dimensione più ridotta (e quindi anche più commerciabile) dei quadri e l’uso della spatola anziché del pennello.
La Suprema Corte ha confermato le due sentenze di merito, richiamando anzitutto l’art. 171, 1° comma, l. aut., che sanziona penalmente il fatto di chi “senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma, a) riproduce …, vende o mette in vendita o pone altrimenti in commercio un’opera altrui”. Nella pronuncia viene inoltre confermata la sussistenza del plagio quando l’opera plagiaria abbia mutuato dall’opera plagiata il cd. nucleo individualizzante o creativo, ricalcando in modo pedissequo quanto da altri ideato ed espresso in forma determinata e identificabile. Al contrario, afferma la Corte, il plagio è da escludersi allorché la nuova opera si fondi sì sulla stessa idea ispiratrice, ma si differenzi negli elementi essenziali che ne caratterizzano la forma espressiva (Cass. Sez. I, 26 gennaio 2018 n. 2039, Foro it., 2018, 3, I, 855).
Il secondo caso ha visto contrapporsi il noto artista Emilio Isgrò e la casa discografica Sony Music Entertainment e ha avuto ad oggetto la copertina del disco di Roger Waters (già fondatore e membro dei Pink Floyd) intitolato “Is this the life we really want?”.
L’artista italiano aveva agito in via cautelare davanti al Tribunale per ottenere l’inibitoria della commercializzazione, diffusione e distribuzione dell’involucro del disco, in quanto ritenuto un plagio delle sue opere, ed in particolare di quella intitolata “Cancellature”, del 1964.
Ed infatti, la tecnica della cancellatura da un testo scritto riprodotto sulla copertina, da cui emerge il titolo dell’album, appare analoga, per non dire identica, a quella da molti anni utilizzata da Isgrò nelle sue opere: linee nere, tracciate in modo irregolare, che lasciano trasparire alcuni segni grafici sottostanti, mettendo in evidenza le residue parole risparmiate dalle cancellature.
Anche in tale caso, il Giudice muove dal corretto assunto per cui la protezione del diritto d’autore non ha ad oggetto le idee, ma solo ed unicamente le forme in cui esse vengono espresse. Messa da parte ogni considerazione riguardo all’idea sottesa alle due opere (che peraltro si assumeva essere differente), il Collegio si è concentrato sulle seguenti questioni: a) accertare il carattere creativo/artistico delle opere di Emilio Isgrò, espresse in quella data forma (cancellature); b) effettuare una valutazione comparativa delle opere di Isgrò rispetto al materiale che ricopre il supporto fonografico (CD e disco in vinile) onde verificare se il secondo costituisca una riproduzione delle prime.
Essendosi data risposta affermative ad entrambe le questioni (la seconda sostenuta anche dalla percezione da parte dei critici musicali e dei critici d’arte, che hanno immediatamente associato la copertina dell’opera discografica di Roger Waters a quella di Emilio Isgrò), il Giudice ha accolto la domanda del ricorrente, inibendo la distribuzione della copertina del disco (Trib. Milano, Sez. Impresa, ord. 25 luglio 2017).
Per i curiosi del finale dirò che Isgrò e Waters, con un comunicato congiunto del 2018, previa espressione dei sentimenti di stima reciproca, hanno dichiarato di aver trovato un accordo prevedente la rinuncia dell’artista italiano alla propria istanza, con conseguente via libera alla distribuzione del disco. Non è dato conoscere se ciò abbia previsto una qualche forma di compensazione (il comunicato si può leggere su il Post, 31 gennaio 2018; https://www.ilpost.it/2018/01/31/isgro-waters-accordo/).
Si può azzardare a questo punto un parallelismo con l’opera fotografica, quella cioè, nella tripartizione presente nel nostro sistema, che presenti indubbi elementi di creatività, sia pur con tutti i limiti e le estensioni che tale concetto può assumere.
D’altra parte, se la fotografia è entrata a far parte (sia pur tardivamente) delle opere dell’ingegno protette ai sensi della legge sul diritto d’autore (come la pittura, la letteratura, la musica ecc.) non c’è ragione di escludere a priori l’applicazione degli stessi principi dettati in tema delle altre arti visive all’opera fotografica.
Non vi è dubbio, anzitutto, che sia possibile la “contraffazione”, nel senso sopra esplicato, intesa come riproduzione di un’opera fotografica esistente (in violazione dei diritti dell’autore) con attribuzione della paternità all’autore “contraffatto”. Come detto sopra, il caso più comune è quello della pubblicazione non autorizzata di immagini riferite ad un certo autore, in violazione dell’art. 171 l. aut. lett. a) l. aut.
Altro caso possibile è la riproduzione fotografica di una fotografia d’autore (in ipotesi anche da un catalogo), eventualmente falsificando anche il timbro e/o la firma (se esistenti) e immetterlo sul mercato. Ancor più facile sarebbe appropriarsi e realizzare una o più stampe di un file fotografico di cui l’ipotetico contraffattore sia venuto in possesso per qualche ragione, oppure che abbia semplicemente reperito sul web in un formato sufficientemente adatto alla stampa. La differenza rispetto alle ipotesi di un dipinto falsificato risiede qui nel fatto che la fotografia (sia da negativo che da file) è per sua natura riproducibile all’infinito ed il supporto non è necessariamente (o almeno non è più) un elemento intrinseco ed imprescindibile che caratterizza l’opera d’arte. Stesso discorso potrebbe valere per altre tecniche di riproduzione seriale delle opere d’arte: ad esempio le litografie, di cui sarebbe possibile tirare “N” copie ove lo stampo non sia stato spaccato dopo l’utilizzo compiuto dall’autore: il tema in discorso ci porta qui al celebre saggio risalente agli anni trenta del ‘900 di Walter Benjamin, di cui non è possibile qui trattare (L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, ripubblicato da Einaudi, 2011).
In linea del tutto teorica sarebbe anche pensabile realizzare ex novo (non riprodurre) una determinata fotografia d’autore, ammesso che sia possibile (e non lo è mai) avere a disposizione quello stesso soggetto, quel dato paesaggio, quella situazione e via dicendo (di fatto è un’ipotesi impraticabile). Per fare un esempio a tutti noto, se volessi riprodurre la celebre fotografia di Gianni Berengo Gardin della vettura ripresa da dietro sulla spiaggia davanti all’oceano, non solo dovrei ritrovare quella vettura con quella targa, ma anche la stessa luce e, soprattutto, lo stesso, identico cielo! Semplicemente impossibile.
Altre immagini (penso ad esempio alla fotografia di still life) potrebbero risultare meno complicate, ma parliamo sempre di ipotesi estreme. Ma soprattutto, ci si chiede, a quale scopo, dato che esisterà sempre l’opera originale?
Veniamo adesso al profilo del “plagio”, inteso come l’appropriazione di elementi creativi e autoriali espressi in determinate forme e modalità espressive.
Il dato di partenza, come più volte sottolineato, è che la tutela del diritto d’autore non protegge le idee alla base dell’opera ma soltanto la forma nella quale l’idea è esternalizzata.
Anche in questo caso, a mio avviso, non potrebbe escludersi a priori la possibilità del plagio, almeno in teoria. In pratica, occorre che il fotografo, autore di quella “imitazione parassitaria” che costituisce il fulcro del plagio, realizzi le proprie opere fotografiche con modalità formali ed espressive chiaramente riconoscibili e ben distinguibili, che ne connotino la cifra stilistica in modo inequivocabile. Il che non è facile ma non è affatto da escludersi.
Si pensi, ad esempio, ai fotomosaici di Maurizio Galimberti, realizzati attraverso la giustapposizione di molteplici stampe Polaroid riproducenti particolari del soggetto fotografato, ricomposti sapientemente a formare l’immagine complessiva. In questo caso, se l’idea è quella del ritratto, la forma esteriore è costituita dal mosaico nel suo complesso. A ben guardare, l’ipotesi in esame non è molto dissimile da quella del caso Isgrò, avendo la composizione dei frammenti del ritratto analoga natura delle cancellature sul testo: Isgrò cancella parti di testo per far emergere le restanti; Galimberti assembla frammenti del soggetto per fare emergere il ritratto nel suo complesso. In entrambi i casi la tecnica formale è ben definita e identificabile.
Stesso discorso potrebbe valere per tutti gli autori che abbiano una loro cifra stilistica ben determinata e riconoscibile, rispetto ai quali l’eventuale realizzazione di immagini del tutto simili non possano avere quello “scarto semantico” tale da renderle originali.
Penso ad esempio, per restare in Italia, ai paesaggi marchigiani di Mario Giacomelli, contrastati all’estremo con un lavoro in camera oscura fino al punto da renderli trasfigurati e astratti, oppure ai tagli di colore di Franco Fontana, simili a opere pittoriche e informali. Fuori dall’Italia, mi viene da pensare alle gigantesche allegorie baroccheggianti, dai colori accesi, di David Lachapelle.
In questi casi, non potrebbe a mio avviso escludersi che, sulla base degli stessi principi affermati dalla giurisprudenza sopra citata, anche in tema di fotografia sia possibile configurare un’ipotesi di plagio, nel senso fatto proprio sopra, tutelabile con gli strumenti offerti dalla legge sul diritto d’autore.
A conferma delle ipotesi appena tratteggiate si pone un interessante caso, in cui l’esistenza del plagio di un’opera fotografica è stato ritenuto sussistere non già tramite la realizzazione di un’altra fotografia, ma attraverso la pittura.
In pratica, un pittore aveva riprodotto in modo pedissequo, e successivamente pubblicizzato e posto in commercio, alcune fotografie di “still life” realizzate dal fotografo Mauro Davoli, con ciò violando – come ritenuto dal Tribunale – sia i diritti di utilizzazione economica sia il diritto morale. Per giunta, il pittore aveva inserito le fotografie delle opere pittoriche sul suo sito internet, accompagnate dall’indicazione “Fotografato da Mauro Davoli”, con l’evidente intento e conseguente risultato di creare confusione in relazione all’effettiva paternità delle opere e lasciando intendere che le fotografie del Davoli rappresentassero esse stesse le proprie opere pittoriche. Conseguentemente il Giudice ordinava in via cautelare l’inibizione dell’ulteriore realizzazione e commercializzazione delle opere, disponendo altresì il sequestro delle stesse (Trib. Milano, ord. 27 dicembre 2006, in Dir. Aut. 2007, 264, con nota di commento di Salvo Dell’Arte, “Opere fotografiche e plagio trasversale. Tutela cautelare”).
Il caso citato appare doppiamente interessante: anzitutto perché ha per oggetto il plagio di un’opera fotografica, di cui afferma pacificamente la configurabilità e accerta la sussistenza (primo precedente noto); in secondo luogo perché il plagio vede coinvolte opere d’arte visiva di diversa natura: da una parte opere fotografiche, dall’altra opere pittoriche (che la dottrina, nella nota di commento sopra citata definisce “plagio trasversale”). Un’ipotesi opposta a quella che normalmente dà luogo a controversie, e cioè della riproduzione fotografica di opere pittoriche: fattispecie che tuttavia non dà luogo a plagio, ma che rileva più semplicemente in quanto illecita riproduzione di opera dell’ingegno, quando ciò non sia autorizzato dall’autore.
LA FOTOGRAFIA DEI BENI CULTURALI
Musée d'Orsay, Paris, 2022
(c) Federico Montaldo
Quante volte visitando un museo, una galleria, un sito culturale avete a avuto la tentazione di fotografare le opere esposte, ma vi siete astenuti dal farlo? Oppure nel farlo avete fatto in modo di non incorrere negli sguardi del custode?
Che libertà abbiamo di riprendere, riprodurre, pubblicare e diffondere fotografie di beni quadri, sculture, una raccolta di antichi incunaboli, installazioni di arte contemporanea?
Facciamo un po’ d’ordine.
Anzitutto occorre individuare la nozione giuridica di “bene culturale”, che nel nostro ordinamento è contenuta nell’art. 2 del “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio” (D.Lgs. 42/2001), secondo cui:
“Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.
Per la dettagliata elencazione di tali beni, si fa rinvio alla lettura dei citati articoli 10 e 11 del Codice, che qui per ragioni di spazio non è possibile riportare, ma che sono agevolmente reperibili sulla rete.
Precisato che ci stiamo qui riferendo ai beni culturali pubblici (cioè dei beni di proprietà dello Stato, e/o comunque in consegna al Ministero dei beni culturali, alle Regioni, Soprintendenze e ad altri enti pubblici territoriali, in quanto dichiarati di interesse culturale,) la loro riproduzione è oggi regolata dall’art. 108 del medesimo testo, nella formulazione risultante dalle modifiche e integrazioni della legge 124/2017, che ha portato a compimento quella “rivoluzione” che il cd. Art bonus (D.L. 83/2014), aveva già avviato qualche anno prima.
Ebbene tale norma prevede che quando la riproduzione di tali beni avvenga:
• senza scopo di lucro;
• per ragioni di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa;
• ai fini di promozione della conoscenza del patrimonio culturale
essa è da ritenersi libera e può essere liberamente realizzata a condizione che ciò avvenga senza l'uso di mezzi che possano danneggiare le opere (luci artificiali o flash), senza l'uso di stativi o treppedi, nel rispetto di eventuali diritti d’autore sulle opere.
E’ stata in tal modo superata la vecchia e anacronistica concezione di tipo “proprietario” dei beni culturali, in cui l’esercizio della custodia da parte degli enti possessori veniva in realtà confusa con l’esercizio di un diritto di proprietà esclusiva nei confronti degli stessi.
Viceversa, quando le riprese avvengano per scopi professionali (su commissione o per propria iniziativa), è richiesta un’esplicita autorizzazione, e spesso il pagamento di un canone o corrispettivo, determinato dal gestore di ogni singola struttura, che ha il compito di determinarne la misura anche basandosi sul tipo e la durata delle riprese, sulle caratteristiche dei soggetti e soprattutto sulle possibilità di guadagno che queste offrono
Quanto alla divulgazione delle immagini legittimamente eseguite, è anch’essa ammessa con ogni mezzo, purché in modo tale da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro.
E si osservi che tale scopo non necessariamente coincide con la riproduzione e cessione di immagini di opere (es. la pubblicazione e vendita di un catalogo, o la realizzazione di stampe), ma è stato ritenuto sussistere anche in via indiretta.
In questo senso, il Tribunale di Firenze ha ritenuto vietata la riproduzione e l’utilizzazione sull’immagine del David di Michelangelo custodito alle Gallerie dell’Accademia di Firenze da parte di un’agenzia di servizi turistici sui propri dépliant e sito internet per vendere i suoi servizi e pubblicizzare la propria attività, in quanto appunto di tipo commerciale (Trib. Firenze, ord. 26 Ottobre 2017).
Naturalmente tutto ciò vale per il caso di beni culturali di proprietà pubblica. Quando il bene culturale è invece di proprietà privata, la regolamentazione del regime di ripresa, riproduzione e diffusione è integralmente rimessa alla proprietà del bene. Essa potrà vietarla oppure consentirla entro i limiti eventualmente previsti, a propria esclusiva discrezione.
E all’estero?
Il regime sopra descritto ha anche il pregio di aver posto la normativa italiana in linea con quella dei più importanti istituti culturali del mondo.
All’estero, infatti, sia nei musei che negli archivi e nelle biblioteche, è generalmente permesso fotografare le opere esposte – senza l’ausilio di flash e cavalletti - e utilizzare (anche su blog e social) le immagini ottenute per scopi di ricerca e studio, con esclusione in genere delle mostre temporanee e nel rispetto della normativa di settore.
Tanto per citare alcuni esempi, la Tate Gallery e la National Gallery di Londra consentono lo scatto di fotografie nelle principali sale espositive, per usi commerciali e non commerciali, con esclusione delle mostre temporanee a pagamento e nel rispetto della normativa sul copyright.
Nei musei francesi valgono regole simili, Al Louvre e al Musée d’Orsay è permesso scattare fotografie della collezione permanente esclusivamente per uso personale, mentre è prevista un’autorizzazione da parte dell’ente museale per l’utilizzo di immagini a scopo di ricerca o educativo.
Anche negli U.S.A. si ritrovano regole sostanzialmente analoghe.
(v. F. Minio, La libera riproducibilità dei beni culturali dopo l’emanazione della legge 4 agosto 2017, n. 124).