FEDERICO MONTALDO

Fotografia e Diritto

IL CASO NEVERMIND DEI NIRVANA

date » 08-04-2025 17:13

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tags » Nirvana, nevermind, fotografia, disco, musica, dollaro, minori,

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A proposito della famosa copertina di Nevermind, leggendario album dei Nirvana del 1991, qualcuno ha detto che la cosa più oscena di quella immagine è il dollaro.

Non sembra pensarla così Mr. Spencer Elden (o forse, sarebbe meglio dire, i di lui avvocati), che quando comparve sulla copertina del celebre disco aveva pochi mesi, e che oggi, maturo trentenne, ha fatto causa agli ex componenti della band e alle persone coinvolte nella realizzazione dell’album, sostenendo di essere stato sfruttato.
In particolare, a quanto si apprende, i Nirvana avrebbero usato intenzionalmente l’immagine «pedopornografica» del bambino per scopi commerciali e «sfruttato la natura scioccante della sua immagine» per «provocare una reazione sessuale istintiva» nello spettatore e promuovere la band a spese di Elden.
Poco importa che la copertina di Nevermind sia stata interpretata come una critica al capitalismo, e che, secondo la legge americana, immagini di bambini nudi che non abbiano elementi per essere considerate contenuti sessuali non vengono ritenute pornografiche.

Gli avvocati di Elden hanno aggiunto che la fotografia ha provocato al loro cliente «danni permanenti» e che la presenza della banconota da un dollaro suggerisce in qualche modo che il bambino possa essere «un sex worker» (v. Rolling Stone, 26 Agosto 2021, Il Post, 25 agosto 2021, Variety, 24 Agosto 2021).
Che dire?
La prima possibile osservazione riguarda la genuinità della sofferenza della vittima. Su di essa (la genuinità, non la vittima) è lecito sommessamente avanzare qualche dubbio, dato che il nostro Elden, – evidentemente prima di aver preso coscienza dei propri patimenti psicologici - era arrivato a tatuarsi sul petto la scritta “Nevermind” e che in passato, in occasione degli anniversari dell’uscita del disco, aveva anche provato a ricreare la copertina del disco.
Lasciamo questo argomento alla difesa delle controparti, nei cui confronti il “petitioner” ha domandato un risarcimento del danno di $ 150.000 ciascuno (tra questi il fotografo che scattò la foto, Kirk Weddle; il direttore artistico dell’album, Robert Fisher; i due ex membri dei Nirvana, Dave Grohl e Krist Novoselic; la ex moglie di Kurt Cobain, Courtney Love; le persone che si occupano di gestire l’eredità di Cobain, e vari rappresentanti delle etichette discografiche che hanno pubblicato e distribuito il disco negli ultimi trent’anni).

La seconda osservazione riguarda una società – quella americana - in cui tutto è (o è divenuto) ossessivamente sessualizzato e in cui l’oscenità passa solo ed esclusivamente attraverso le immagini che riportano al sesso o agli organi sessuali. In ogni caso e a prescindere dal contesto. Never mind (è il caso di dire) se sono i capezzoli della Venere di Botticelli o il corpo della bimba vietnamita in fuga dalle bombe (americane) al napalm. Su Facebook non passeranno! Anche il puritanesimo si è digitalizzato.
E poco importa se film o videogiochi propongano senza limiti di età immagini e temi di assoluta violenza, truculente e sanguinarie e se l’uso delle armi, intoccabile, è garantito in Costituzione. In questo nulla di osceno.
In Europa stiamo messi un po’ meglio. Ma non disperiamo. Solitamente da Oltreoceano abbiamo importato il meglio, ma anche il peggio.

La terza osservazione è di tipo legale (il che giustifica l’inserimento di questo pezzo nella rubrica di riferimento) e tocca ancora una volta il tema dell’immagine dei minori.
Come ho sempre più occasione di constatare - sia dall’analisi che dalla frequenza dei casi giudiziari, oltre che dai quesiti che mi vengono posti a livello professionale - si tratta di un tema tra i più delicati in materia di rapporti tra fotografia e diritto.
Per una sintesi delle principali problematiche si rinvia al post pubblicato in questa sezione sugli aspetti legali del ritratto dei minori.

In particolare, in tema di immagini dei minori, l’interesse primario e assoluto è costituito dalla tutela dello sviluppo armonioso e completo della personalità del minore, al cospetto del quale tutte le ipotesi derogatorie sull’obbligo del consenso - che in questo caso non può mai essere presunto, come a certe condizioni è ravvisabile nei confronti degli adulti - debbono cedere e/o comunque sono soggette ad essere interpretate restrittivamente da parte del giudice.
Ma, a ben guardare, non sembra essere neppure questo il punto nodale – nel caso di Nevermind – poiché l’azione di Spencer Elden giunge ben oltre il raggiungimento della maggior età, a personalità ormai abbondantemente formata (bene o male non è qui oggetto di indagine).
Piuttosto è una questione di liberatoria tout court, cioè del consenso alla pubblicazione della propria immagine.

A dire dei legali di Elden, infatti, l’unica autorizzazione a suo tempo accordata al fotografo (che pare fosse amico del padre di Elden) era quella allo scatto del tuffo in acqua (ricevendo un compenso di $ 200), ma non alla pubblicazione della stessa sulla copertina di un disco (che ha poi venduto oltre 30 milioni di copie).
Sotto tale profilo, se effettivamente sussistente, la domanda può apparire fondata e lo stratosferico numero di copie del disco vendute rappresenta un elemento rilevantissimo per la eventuale quantificazione del danno.
Al netto di ogni considerazione circa il preteso (e tardivo) pregiudizio asseritamente subito in chiave “pedopornografica”.

ESISTE IL PLAGIO IN FOTOGRAFIA?

date » 08-04-2025 16:59

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tags » esposizione, mostra, fotografia, catalogo, diritto, autore, corpus, stampe, plagio,

waters_isgro__.jpgConfronto tra la copertina del disco di Roger Waters "Is this the life we really want" e il particolare di un'opera di Emilio Isgrò

Uno dei temi su cui sovente ci si interroga in materia di diritto d’autore è quello del “plagio” in fotografia. Se sia o meno configurabile, anche solo in teoria, e quali possano eventualmente essere le forma di tutela.
Sebbene il termine “plagio” venga comunemente utilizzato in materia di diritto d’autore, sia in dottrina che in giurisprudenza, non se ne rinviene una definizione legislativa.
O meglio, ve n’era una, ma in un ambito del tutto diverso da quello in esame. Esisteva infatti nel nostro codice penale il reato di “plagio”, previsto dall’art. 603 c.p. (“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito …”), che tuttavia è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo ed quindi è stato espunto dall’ordinamento (sent. Corte Cost. n. 96/81).
Il termine ha un’origine antica.
In latino, “plagium” significa “sotterfugio”, che nel diritto romano stava ad indicare la vendita come schiavo di un uomo che si sapeva essere libero, oppure la sottrazione di uno schiavo altrui tramite la persuasione o la corruzione dello stesso.
Ciò detto, oltre ad una connotazione e ad un significato linguistico di uso comune (come “soggezione ad altri”; es. “Tizio è completamente plagiato da Caio”), il termine, viene più specificamente accostato alle opere dell’ingegno false, falsificate, contraffatte ecc., in violazione dei diritti spettanti al loro creatore.
Anche l’accostamento al diritto d’autore si riporta alla storia romana.
Il poeta latino Marziale, vissuto nel del I° secolo d.C., in un suo epigramma, parla di plagio riferendosi ad un suo rivale poeta che aveva letto pubblicamente i suoi versi, facendo finta che fossero i propri (“Si dice in giro, Fidentino, che tu le mie poesie | reciti in pubblico come se fossero le tue. | Te le regalerò, se vuoi che si dicano mie: comprale | se vuoi che si dica che sono tue, e non saranno più mie”).

In linea generale, si può affermare che in materia di diritto d’autore, con il termine “plagio” s’intende l’appropriazione, totale o parziale, degli elementi creativi di un’opera altrui, nella loro imitazione servile, così da ricalcare in modo parassitario quanto da altri ideato ed espresso in una forma determinata e identificabile.
Con tale operazione il plagiario intende appropriarsi della paternità dell’opera altrui, attribuendola a sé stesso. Ciò con violazione dei diritti morali e dei diritti patrimoniali spettanti all’autore. Tra questi ultimi, in particolare: il diritto esclusivo di pubblicare l’opera (art. 12, comma 1 l. aut.); il diritto esclusivo di riprodurre l’opera (art. 13 l. aut.); il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12, comma 2, l. aut.); il diritto esclusivo di distribuzione, commercializzazione e messa a disposizione dell’opera (art. 17 l. aut.).

Il plagio va distinto dalla contraffazione e dal cd. falso d’autore.
Nella contraffazione, infatti, l’autore dell’opera contraffatta non intende affatto spacciarla per propria, ma, al contrario, la riconosce (e la vanta) come altrui, il più delle volte al fine di trarne un illecito profitto. La contraffazione determina la violazione dei diritti di natura patrimoniale: si consideri, ad esempio, la pubblicazione editoriale di fotografie con attribuzione al suo autore in assenza del suo consenso alla riproduzione.
Naturalmente, essa può concretizzarsi anche nella fabbricazione di un falso vero e proprio, come la riproduzione pedissequa di un’opera effettivamente esistente o esistita (es. una determinata opera pittorica, una scultura).
Fattispecie ben più diffusa sul mercato è invece quella del cd. falso d’autore, che consiste nella creazione di un’opera (non esistente nella realtà), ma riproducente lo stile e le modalità espressive di un altro artista (generalmente famoso e quotato): in questo caso la fattispecie dà luogo alla violazione dei soli diritti morali d’autore.
Alla base di questi casi vi è quasi sempre un’operazione truffaldina.
Si pensi ai noti casi dei falsi dipinti “Modigliani”, di cui circolano nel mondo molteplici esemplari (recentemente in una importante mostra genovese ne sono stati scoperti diversi, peraltro dati per autentici da autorevoli critici d’arte e già presenti in cataloghi), oppure al caso delle false sculture di Alberto Giacometti, realizzati con tecnica e forme pressoché indistinguibili dall’olandese Robert Driessen (chi volesse può approfondire l’argomento tramite il documentario presente sulla piattaforma Netflix).

Vale la pena citare anche la famosa burla di Livorno, dove alcuni ragazzi fecero ritrovare nell’Arno, nei pressi della casa dove aveva vissuto Modigliani, alcune sculture lapidee da loro realizzate con lo stile del famoso artista. In questo caso non vi era un intento truffaldino (furono infatti gli stessi autori a rivelarsi), ma quello di mettere alla berlina il mondo della critica d’arte.

Vi è anche il caso – sperimentato da chi scrive - di chi, su commissione, faccia realizzare un quadro nello stile di un famoso artista (vivente o defunto) non a scopo commerciale ma per il solo piacere (ed il vanto) di poter millantare di avere in casa l’opera di un grande maestro.

Per completezza, è opportuno menzionare anche il cd. “plagio evolutivo”, intendendosi per tale, in base alla giurisprudenza, la rielaborazione non autorizzata, pur se a sua volta dotata di forma creativa nuova, di un’opera precedente altrui.
L’ipotesi in esame riguarda in questo caso la violazione dei principi espressi degli art. 4 e 18 della legge 633 del 1941 (l. aut.). La prima norma è diretta a proteggere “le elaborazioni di carattere creativo dell'opera stessa quali (…) le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell'opera originaria”, (…), fatti salvi i diritti esistenti sull’opera originaria. La seconda attribuisce al titolare dell’opera il diritto esclusivo di “elaborare, modificare, trasformare” la propria opera (qualche anno fa la Suprema Corte ha ritenuto la sussistenza di un plagio evolutivo nella realizzazione non autorizzata, e quindi abusiva, del famoso pupazzo umanoide detto “Gabibbo”, in quanto ritenuta elaborazione creativa di altro preesistente pupazzo, adottato quale mascotte della squadra americana di basket della Western Kentucky University; cfr. Cass. Civ. Sez. I, 6 giugno 2018 n. 14635, Riv. Dir. Ind., 2019, 2, II, 57).

Va detto che, in materia di opere fotografiche, non esistono (o, almeno, chi scrive non ha rinvenuto) precedenti riguardanti il tema del plagio (salvo il caso – di estremo interesse – di cui si dirà oltre di plagio di fotografie realizzate con tecnica pittorica).
Utilizzo non a caso il termine “opere fotografiche” e non “fotografie”, in relazione alla nota tripartizione presente nel nostro ordinamento tra “fotografie creative” (art. 2, n. 7, l. aut.), dotate delle pienezza dei diritti alla stregua di qualsiasi altra opera dell’ingegno, “fotografie semplici” (art. 87, 1° comma, l. aut.), tutelate nella sola forma dei cd. diritti connessi e “fotografie documentali” (art. 87, 2° comma, l. aut.), prive di tutela alcuna.

Solo in presenza di un’opera creativa, riconoscibile come tale, è infatti astrattamente possibile parlare di plagio. Ciò con la fondamentale precisazione che la legge non tutela l’idea in sé ma la forma della sua espressione, intesa cioè come risultato dell’attività intellettuale dell’autore: le idee, infatti, non ricevono protezione nel nostro ordinamento bensì le modalità con cui esse vengono realizzate e cioè la forma esterna di rappresentazione (principio costantemente ribadito in giurisprudenza poi normato nella convenzione internazionale TRIP’s – Trade related Intellectual Property Rights, che nell’art. 9, n. 2) espressamente enuncia: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti in quanto tali”. Tra le più recenti pronunce vedasi Cass. Civ. sez. I, 29 Maggio 2020, n. 10300, Riv. Dir. Ind., 2020, 2, 345).

Stante la citata scarsità di materiale giurisprudenziale e dottrinale in materia, si può azzardare una riflessione, sul piano analogico, in relazione alle opere d’arte visuali, e segnatamente alle opere figurative.
A tale proposito intendo fare riferimento a due casi giudiziari: il caso Vedova e il caso Isgrò.
Nel primo, una galleria d’arte aveva posto in commercio (tramite televendita), alcuni quadri di un determinato autore, i quali, sia pur con dimensioni diverse e più piccole, risultavano imitativi delle opere dell’artista informale Emilio Vedova (defunto nel 2006, i cui diritti sono detenuti dalla Fondazione a lui intitolata).
Ponendo correttamente l’accento sulla sola forma espressiva e non sull’idea (e tanto meno sul pregio artistico o sul prezzo delle opere), il Tribunale e la Corte d’appello di Milano, svolto con l’ausilio di una consulenza tecnica l’esame comparativo dei dipinti, sono giunti a ritenere la sussistenza del denunciato plagio. Venivano in particolare in rilievo le medesime masse cromatiche e l’uguale localizzazione dei colori. Ciò partendo del presupposto che ogni artista abbia una riconoscibile impronta, una compiutezza espressiva e uno “scarto semantico” che nel caso di specie risultavano imitati/riprodotti nell’opera plagiaria, a nulla rilevando elementi di dettaglio quali la dimensione più ridotta (e quindi anche più commerciabile) dei quadri e l’uso della spatola anziché del pennello.
La Suprema Corte ha confermato le due sentenze di merito, richiamando anzitutto l’art. 171, 1° comma, l. aut., che sanziona penalmente il fatto di chi “senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma, a) riproduce …, vende o mette in vendita o pone altrimenti in commercio un’opera altrui”. Nella pronuncia viene inoltre confermata la sussistenza del plagio quando l’opera plagiaria abbia mutuato dall’opera plagiata il cd. nucleo individualizzante o creativo, ricalcando in modo pedissequo quanto da altri ideato ed espresso in forma determinata e identificabile. Al contrario, afferma la Corte, il plagio è da escludersi allorché la nuova opera si fondi sì sulla stessa idea ispiratrice, ma si differenzi negli elementi essenziali che ne caratterizzano la forma espressiva (Cass. Sez. I, 26 gennaio 2018 n. 2039, Foro it., 2018, 3, I, 855).

Il secondo caso ha visto contrapporsi il noto artista Emilio Isgrò e la casa discografica Sony Music Entertainment e ha avuto ad oggetto la copertina del disco di Roger Waters (già fondatore e membro dei Pink Floyd) intitolato “Is this the life we really want?”.
L’artista italiano aveva agito in via cautelare davanti al Tribunale per ottenere l’inibitoria della commercializzazione, diffusione e distribuzione dell’involucro del disco, in quanto ritenuto un plagio delle sue opere, ed in particolare di quella intitolata “Cancellature”, del 1964.
Ed infatti, la tecnica della cancellatura da un testo scritto riprodotto sulla copertina, da cui emerge il titolo dell’album, appare analoga, per non dire identica, a quella da molti anni utilizzata da Isgrò nelle sue opere: linee nere, tracciate in modo irregolare, che lasciano trasparire alcuni segni grafici sottostanti, mettendo in evidenza le residue parole risparmiate dalle cancellature.
Anche in tale caso, il Giudice muove dal corretto assunto per cui la protezione del diritto d’autore non ha ad oggetto le idee, ma solo ed unicamente le forme in cui esse vengono espresse. Messa da parte ogni considerazione riguardo all’idea sottesa alle due opere (che peraltro si assumeva essere differente), il Collegio si è concentrato sulle seguenti questioni: a) accertare il carattere creativo/artistico delle opere di Emilio Isgrò, espresse in quella data forma (cancellature); b) effettuare una valutazione comparativa delle opere di Isgrò rispetto al materiale che ricopre il supporto fonografico (CD e disco in vinile) onde verificare se il secondo costituisca una riproduzione delle prime.
Essendosi data risposta affermative ad entrambe le questioni (la seconda sostenuta anche dalla percezione da parte dei critici musicali e dei critici d’arte, che hanno immediatamente associato la copertina dell’opera discografica di Roger Waters a quella di Emilio Isgrò), il Giudice ha accolto la domanda del ricorrente, inibendo la distribuzione della copertina del disco (Trib. Milano, Sez. Impresa, ord. 25 luglio 2017).
Per i curiosi del finale dirò che Isgrò e Waters, con un comunicato congiunto del 2018, previa espressione dei sentimenti di stima reciproca, hanno dichiarato di aver trovato un accordo prevedente la rinuncia dell’artista italiano alla propria istanza, con conseguente via libera alla distribuzione del disco. Non è dato conoscere se ciò abbia previsto una qualche forma di compensazione (il comunicato si può leggere su il Post, 31 gennaio 2018; https://www.ilpost.it/2018/01/31/isgro-waters-accordo/).


Si può azzardare a questo punto un parallelismo con l’opera fotografica, quella cioè, nella tripartizione presente nel nostro sistema, che presenti indubbi elementi di creatività, sia pur con tutti i limiti e le estensioni che tale concetto può assumere.
D’altra parte, se la fotografia è entrata a far parte (sia pur tardivamente) delle opere dell’ingegno protette ai sensi della legge sul diritto d’autore (come la pittura, la letteratura, la musica ecc.) non c’è ragione di escludere a priori l’applicazione degli stessi principi dettati in tema delle altre arti visive all’opera fotografica.

Non vi è dubbio, anzitutto, che sia possibile la “contraffazione”, nel senso sopra esplicato, intesa come riproduzione di un’opera fotografica esistente (in violazione dei diritti dell’autore) con attribuzione della paternità all’autore “contraffatto”. Come detto sopra, il caso più comune è quello della pubblicazione non autorizzata di immagini riferite ad un certo autore, in violazione dell’art. 171 l. aut. lett. a) l. aut.
Altro caso possibile è la riproduzione fotografica di una fotografia d’autore (in ipotesi anche da un catalogo), eventualmente falsificando anche il timbro e/o la firma (se esistenti) e immetterlo sul mercato. Ancor più facile sarebbe appropriarsi e realizzare una o più stampe di un file fotografico di cui l’ipotetico contraffattore sia venuto in possesso per qualche ragione, oppure che abbia semplicemente reperito sul web in un formato sufficientemente adatto alla stampa. La differenza rispetto alle ipotesi di un dipinto falsificato risiede qui nel fatto che la fotografia (sia da negativo che da file) è per sua natura riproducibile all’infinito ed il supporto non è necessariamente (o almeno non è più) un elemento intrinseco ed imprescindibile che caratterizza l’opera d’arte. Stesso discorso potrebbe valere per altre tecniche di riproduzione seriale delle opere d’arte: ad esempio le litografie, di cui sarebbe possibile tirare “N” copie ove lo stampo non sia stato spaccato dopo l’utilizzo compiuto dall’autore: il tema in discorso ci porta qui al celebre saggio risalente agli anni trenta del ‘900 di Walter Benjamin, di cui non è possibile qui trattare (L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, ripubblicato da Einaudi, 2011).
In linea del tutto teorica sarebbe anche pensabile realizzare ex novo (non riprodurre) una determinata fotografia d’autore, ammesso che sia possibile (e non lo è mai) avere a disposizione quello stesso soggetto, quel dato paesaggio, quella situazione e via dicendo (di fatto è un’ipotesi impraticabile). Per fare un esempio a tutti noto, se volessi riprodurre la celebre fotografia di Gianni Berengo Gardin della vettura ripresa da dietro sulla spiaggia davanti all’oceano, non solo dovrei ritrovare quella vettura con quella targa, ma anche la stessa luce e, soprattutto, lo stesso, identico cielo! Semplicemente impossibile.
Altre immagini (penso ad esempio alla fotografia di still life) potrebbero risultare meno complicate, ma parliamo sempre di ipotesi estreme. Ma soprattutto, ci si chiede, a quale scopo, dato che esisterà sempre l’opera originale?

Veniamo adesso al profilo del “plagio”, inteso come l’appropriazione di elementi creativi e autoriali espressi in determinate forme e modalità espressive.
Il dato di partenza, come più volte sottolineato, è che la tutela del diritto d’autore non protegge le idee alla base dell’opera ma soltanto la forma nella quale l’idea è esternalizzata.
Anche in questo caso, a mio avviso, non potrebbe escludersi a priori la possibilità del plagio, almeno in teoria. In pratica, occorre che il fotografo, autore di quella “imitazione parassitaria” che costituisce il fulcro del plagio, realizzi le proprie opere fotografiche con modalità formali ed espressive chiaramente riconoscibili e ben distinguibili, che ne connotino la cifra stilistica in modo inequivocabile. Il che non è facile ma non è affatto da escludersi.
Si pensi, ad esempio, ai fotomosaici di Maurizio Galimberti, realizzati attraverso la giustapposizione di molteplici stampe Polaroid riproducenti particolari del soggetto fotografato, ricomposti sapientemente a formare l’immagine complessiva. In questo caso, se l’idea è quella del ritratto, la forma esteriore è costituita dal mosaico nel suo complesso. A ben guardare, l’ipotesi in esame non è molto dissimile da quella del caso Isgrò, avendo la composizione dei frammenti del ritratto analoga natura delle cancellature sul testo: Isgrò cancella parti di testo per far emergere le restanti; Galimberti assembla frammenti del soggetto per fare emergere il ritratto nel suo complesso. In entrambi i casi la tecnica formale è ben definita e identificabile.

Stesso discorso potrebbe valere per tutti gli autori che abbiano una loro cifra stilistica ben determinata e riconoscibile, rispetto ai quali l’eventuale realizzazione di immagini del tutto simili non possano avere quello “scarto semantico” tale da renderle originali.
Penso ad esempio, per restare in Italia, ai paesaggi marchigiani di Mario Giacomelli, contrastati all’estremo con un lavoro in camera oscura fino al punto da renderli trasfigurati e astratti, oppure ai tagli di colore di Franco Fontana, simili a opere pittoriche e informali. Fuori dall’Italia, mi viene da pensare alle gigantesche allegorie baroccheggianti, dai colori accesi, di David Lachapelle.

In questi casi, non potrebbe a mio avviso escludersi che, sulla base degli stessi principi affermati dalla giurisprudenza sopra citata, anche in tema di fotografia sia possibile configurare un’ipotesi di plagio, nel senso fatto proprio sopra, tutelabile con gli strumenti offerti dalla legge sul diritto d’autore.

A conferma delle ipotesi appena tratteggiate si pone un interessante caso, in cui l’esistenza del plagio di un’opera fotografica è stato ritenuto sussistere non già tramite la realizzazione di un’altra fotografia, ma attraverso la pittura.
In pratica, un pittore aveva riprodotto in modo pedissequo, e successivamente pubblicizzato e posto in commercio, alcune fotografie di “still life” realizzate dal fotografo Mauro Davoli, con ciò violando – come ritenuto dal Tribunale – sia i diritti di utilizzazione economica sia il diritto morale. Per giunta, il pittore aveva inserito le fotografie delle opere pittoriche sul suo sito internet, accompagnate dall’indicazione “Fotografato da Mauro Davoli”, con l’evidente intento e conseguente risultato di creare confusione in relazione all’effettiva paternità delle opere e lasciando intendere che le fotografie del Davoli rappresentassero esse stesse le proprie opere pittoriche. Conseguentemente il Giudice ordinava in via cautelare l’inibizione dell’ulteriore realizzazione e commercializzazione delle opere, disponendo altresì il sequestro delle stesse (Trib. Milano, ord. 27 dicembre 2006, in Dir. Aut. 2007, 264, con nota di commento di Salvo Dell’Arte, “Opere fotografiche e plagio trasversale. Tutela cautelare”).
Il caso citato appare doppiamente interessante: anzitutto perché ha per oggetto il plagio di un’opera fotografica, di cui afferma pacificamente la configurabilità e accerta la sussistenza (primo precedente noto); in secondo luogo perché il plagio vede coinvolte opere d’arte visiva di diversa natura: da una parte opere fotografiche, dall’altra opere pittoriche (che la dottrina, nella nota di commento sopra citata definisce “plagio trasversale”). Un’ipotesi opposta a quella che normalmente dà luogo a controversie, e cioè della riproduzione fotografica di opere pittoriche: fattispecie che tuttavia non dà luogo a plagio, ma che rileva più semplicemente in quanto illecita riproduzione di opera dell’ingegno, quando ciò non sia autorizzato dall’autore.
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