FEDERICO MONTALDO

Fotografia e Diritto

IL COLLEZIONISTA HA DIRITTO DI REALIZZARE UN'ESPOSIZIONE PUBBLICA DI FOTOGRAFIE?

date » 09-04-2025 10:52

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tags » esposizione, mostra, fotografia, catalogo, comunicazione, pubblicità, diritto, autore, corpus, stampe,

IMG_4348.jpg(c) Federico Montaldo

Spesso ci si domanda se ed entro quali limiti quali limiti il proprietario-collezionista di opere dell’ingegno protette da diritto d’autore (nel caso di specie stampe fotografiche), sia legittimato a realizzare con le medesime un’esposizione pubblica.
La questione, che a molti potrebbe sembrare banale o di facile soluzione, nasconde in realtà alcuni nodi riguardanti la corretta applicazione della legge sul diritto d’autore.

Come è noto, l’autore ha i diritti esclusivi di utilizzare economicamente la propria opera, in tutte le forme ed i modi consentiti dalla legge (art. 12 l. aut.).
Tali diritti, di natura patrimoniale, possono essere ceduti a terzi con contratti di diversa natura e caratteristiche (vendita, licenza, noleggio, prestito ecc.), dall’autore stesso o dai di lui eredi (art. 107 l. aut.).
Deve essere ben chiaro, peraltro, che con la cessione di uno o più esemplari dell’opera nella sua materialità (il quadro, la scultura, la stampa fotografica, la stampa litografica ecc.), non comporta la trasmissione anche di tali diritti. A meno che ciò sia stato espressamente previsto (art. 109 l. aut.) e che risulti provato per iscritto (art. 110 l. aut.).

Oggetto del diritto d’autore, infatti, è il bene immateriale (il c.d. corpus mysticum), distinto dal possesso/proprietà del mero supporto sul quale l’opera è fruibile (il c.d. corpus mechanicum).
Con riferimento specifico alle fotografie, tali diritti sarebbero da presumersi trasferiti all’acquirente nel solo caso di cessione del negativo o di altro mezzo di riproduzione (art. 89 l. aut.). Salvo sempre il patto contrario.
Non ci soffermiamo qui sulla possibile assimilazione a detta cessione del file fotografico digitale.

Ciò premesso si pone questione se tra i diritti esclusivi spettanti all’autore (o ai suoi eredi) rientri anche il “diritto di esposizione” al pubblico. Se così fosse, occorrerebbe sempre ottenere apposita autorizzazione dall’avente diritto, mentre ciò non sarebbe necessario nel caso contrario.
Occorre dire anzitutto che la legge sul diritto d’autore non menziona espressamente il diritto di esposizione. Tale silenzio ha generato opinioni contrapposte in dottrina.
Per una parte, tale diritto rappresenta una forma di “comunicazione al pubblico”, e quindi sarebbe da considerarsi riservato all’autore ed ai suoi aventi causa. Per altra parte, all’opposto, esso rappresenta solo una facoltà inerente al diritto di proprietà, senza quindi necessità di autorizzazione da parte dell’artista.

In tale contesto, non definito dalla legge, si è peraltro espressa la giurisprudenza, secondo la quale il diritto di organizzare esposizioni al pubblico di un’opera spetti al proprietario e non all’artista (Trib. Verona, 13.10.1989; App. Venezia, 25.03.1955; Trib. Roma, 16.05.1959; App. Roma, 13.05.1961; Cass. 01.03.1967).
In definitiva, secondo la prevalente giurisprudenza, al proprietario-collezionista è generalmente consentito realizzare esposizioni al pubblico con opere coperte da diritto d’autore.

Occorre tuttavia svolgere alcune precisazioni ulteriori.

Anzitutto, pur essendo il diritto di esposizione non espressamente previsto dalla legge, nulla esclude che esso possa essere convenzionalmente stabilito e regolato tra le parti, a livello privatistico, all’atto della cessione dell’opera. In altri termini, l’autore (e/o i suoi eredi) possono decidere espressamente di escluderlo, oppure di ammetterlo al ricorrere di determinate condizioni e/o comunque previa autorizzazione da parte del titolare. Così come può essere imposto all’acquirente di trasferire dette obbligazioni agli eventuali sub-acquirenti dell’opera.

In secondo luogo, al proprietario-collezionista che effettui una mostra è inibito realizzare un catalogo delle opere esposte.
Il diritto di riproduzione dell’opera costituisce infatti prerogativa esclusiva del titolare del diritto d’autore e la sua eventuale realizzazione, dando luogo ad una moltiplicazione dell’opera, ne costituirebbe una violazione, fonte di risarcimento del danno (art. 13 l. aut; sul punto v. Cass. 19.12.1996 n. 11343).
Né pare possibile che l’esposizione delle opere possa arrecare un lucro al proprietario-collezionista, poiché anche in tale caso si andrebbe a ledere il diritto allo sfruttamento economico dell’opera, riservata al titolare del diritto d’autore.
Infine, l’esposizione al pubblico potrebbe eventualmente concretare violazione dei diritti morali dell’autore (artt. 20-24 l.aut.).
Ciò potrebbe configurarsi qualora le modalità espositive siano ritenute lesive dell’onore o della reputazione dell’autore stesso. Si pensi, ad esempio, al caso in cui l’esposizione includa opere non rappresentative del lavoro dell’artista presentate invece come significative, o quando l’autore sia accostato ad altri artisti di diversa corrente o genere artistico. Oppure, più semplicemente, quando l’esposizione sia realizzata in un contesto inappropriato o con un allestimento scadente e/o di profilo inadeguato rispetto all’immagine dell’artista.
I diritti morali (tra questi si consideri la paternità dell’opera, l’opposizione a qualunque deformazione, modificazione, mutilazione che possa arrecare pregiudizio all’immagine dell’artista), sono considerati inalienabili, e, dopo la morte dell’autore possono essere fatti valere, senza limiti di tempo, dal coniuge e dai figli, dai fratelli e sorelle e dai loro discendenti.

Altra questione riguarda invece la realizzazione di un catalogo della mostra, oppure il materiale di comunicazione e pubblicitario dell’esposizione con tutte le possibili modalità. In tali casi, non vi è dubbio che al proprietario delle opere esposte sia inibito l’utilizzo delle riproduzioni delle opere in mostra, in cui diritti restano pur sempre in capo al titolare del diritto d’autore od ai suoi eredi.
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ESISTE IL PLAGIO IN FOTOGRAFIA?

date » 08-04-2025 16:59

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waters_isgro__.jpgConfronto tra la copertina del disco di Roger Waters "Is this the life we really want" e il particolare di un'opera di Emilio Isgrò

Uno dei temi su cui sovente ci si interroga in materia di diritto d’autore è quello del “plagio” in fotografia. Se sia o meno configurabile, anche solo in teoria, e quali possano eventualmente essere le forma di tutela.
Sebbene il termine “plagio” venga comunemente utilizzato in materia di diritto d’autore, sia in dottrina che in giurisprudenza, non se ne rinviene una definizione legislativa.
O meglio, ve n’era una, ma in un ambito del tutto diverso da quello in esame. Esisteva infatti nel nostro codice penale il reato di “plagio”, previsto dall’art. 603 c.p. (“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito …”), che tuttavia è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo ed quindi è stato espunto dall’ordinamento (sent. Corte Cost. n. 96/81).
Il termine ha un’origine antica.
In latino, “plagium” significa “sotterfugio”, che nel diritto romano stava ad indicare la vendita come schiavo di un uomo che si sapeva essere libero, oppure la sottrazione di uno schiavo altrui tramite la persuasione o la corruzione dello stesso.
Ciò detto, oltre ad una connotazione e ad un significato linguistico di uso comune (come “soggezione ad altri”; es. “Tizio è completamente plagiato da Caio”), il termine, viene più specificamente accostato alle opere dell’ingegno false, falsificate, contraffatte ecc., in violazione dei diritti spettanti al loro creatore.
Anche l’accostamento al diritto d’autore si riporta alla storia romana.
Il poeta latino Marziale, vissuto nel del I° secolo d.C., in un suo epigramma, parla di plagio riferendosi ad un suo rivale poeta che aveva letto pubblicamente i suoi versi, facendo finta che fossero i propri (“Si dice in giro, Fidentino, che tu le mie poesie | reciti in pubblico come se fossero le tue. | Te le regalerò, se vuoi che si dicano mie: comprale | se vuoi che si dica che sono tue, e non saranno più mie”).

In linea generale, si può affermare che in materia di diritto d’autore, con il termine “plagio” s’intende l’appropriazione, totale o parziale, degli elementi creativi di un’opera altrui, nella loro imitazione servile, così da ricalcare in modo parassitario quanto da altri ideato ed espresso in una forma determinata e identificabile.
Con tale operazione il plagiario intende appropriarsi della paternità dell’opera altrui, attribuendola a sé stesso. Ciò con violazione dei diritti morali e dei diritti patrimoniali spettanti all’autore. Tra questi ultimi, in particolare: il diritto esclusivo di pubblicare l’opera (art. 12, comma 1 l. aut.); il diritto esclusivo di riprodurre l’opera (art. 13 l. aut.); il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12, comma 2, l. aut.); il diritto esclusivo di distribuzione, commercializzazione e messa a disposizione dell’opera (art. 17 l. aut.).

Il plagio va distinto dalla contraffazione e dal cd. falso d’autore.
Nella contraffazione, infatti, l’autore dell’opera contraffatta non intende affatto spacciarla per propria, ma, al contrario, la riconosce (e la vanta) come altrui, il più delle volte al fine di trarne un illecito profitto. La contraffazione determina la violazione dei diritti di natura patrimoniale: si consideri, ad esempio, la pubblicazione editoriale di fotografie con attribuzione al suo autore in assenza del suo consenso alla riproduzione.
Naturalmente, essa può concretizzarsi anche nella fabbricazione di un falso vero e proprio, come la riproduzione pedissequa di un’opera effettivamente esistente o esistita (es. una determinata opera pittorica, una scultura).
Fattispecie ben più diffusa sul mercato è invece quella del cd. falso d’autore, che consiste nella creazione di un’opera (non esistente nella realtà), ma riproducente lo stile e le modalità espressive di un altro artista (generalmente famoso e quotato): in questo caso la fattispecie dà luogo alla violazione dei soli diritti morali d’autore.
Alla base di questi casi vi è quasi sempre un’operazione truffaldina.
Si pensi ai noti casi dei falsi dipinti “Modigliani”, di cui circolano nel mondo molteplici esemplari (recentemente in una importante mostra genovese ne sono stati scoperti diversi, peraltro dati per autentici da autorevoli critici d’arte e già presenti in cataloghi), oppure al caso delle false sculture di Alberto Giacometti, realizzati con tecnica e forme pressoché indistinguibili dall’olandese Robert Driessen (chi volesse può approfondire l’argomento tramite il documentario presente sulla piattaforma Netflix).

Vale la pena citare anche la famosa burla di Livorno, dove alcuni ragazzi fecero ritrovare nell’Arno, nei pressi della casa dove aveva vissuto Modigliani, alcune sculture lapidee da loro realizzate con lo stile del famoso artista. In questo caso non vi era un intento truffaldino (furono infatti gli stessi autori a rivelarsi), ma quello di mettere alla berlina il mondo della critica d’arte.

Vi è anche il caso – sperimentato da chi scrive - di chi, su commissione, faccia realizzare un quadro nello stile di un famoso artista (vivente o defunto) non a scopo commerciale ma per il solo piacere (ed il vanto) di poter millantare di avere in casa l’opera di un grande maestro.

Per completezza, è opportuno menzionare anche il cd. “plagio evolutivo”, intendendosi per tale, in base alla giurisprudenza, la rielaborazione non autorizzata, pur se a sua volta dotata di forma creativa nuova, di un’opera precedente altrui.
L’ipotesi in esame riguarda in questo caso la violazione dei principi espressi degli art. 4 e 18 della legge 633 del 1941 (l. aut.). La prima norma è diretta a proteggere “le elaborazioni di carattere creativo dell'opera stessa quali (…) le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell'opera originaria”, (…), fatti salvi i diritti esistenti sull’opera originaria. La seconda attribuisce al titolare dell’opera il diritto esclusivo di “elaborare, modificare, trasformare” la propria opera (qualche anno fa la Suprema Corte ha ritenuto la sussistenza di un plagio evolutivo nella realizzazione non autorizzata, e quindi abusiva, del famoso pupazzo umanoide detto “Gabibbo”, in quanto ritenuta elaborazione creativa di altro preesistente pupazzo, adottato quale mascotte della squadra americana di basket della Western Kentucky University; cfr. Cass. Civ. Sez. I, 6 giugno 2018 n. 14635, Riv. Dir. Ind., 2019, 2, II, 57).

Va detto che, in materia di opere fotografiche, non esistono (o, almeno, chi scrive non ha rinvenuto) precedenti riguardanti il tema del plagio (salvo il caso – di estremo interesse – di cui si dirà oltre di plagio di fotografie realizzate con tecnica pittorica).
Utilizzo non a caso il termine “opere fotografiche” e non “fotografie”, in relazione alla nota tripartizione presente nel nostro ordinamento tra “fotografie creative” (art. 2, n. 7, l. aut.), dotate delle pienezza dei diritti alla stregua di qualsiasi altra opera dell’ingegno, “fotografie semplici” (art. 87, 1° comma, l. aut.), tutelate nella sola forma dei cd. diritti connessi e “fotografie documentali” (art. 87, 2° comma, l. aut.), prive di tutela alcuna.

Solo in presenza di un’opera creativa, riconoscibile come tale, è infatti astrattamente possibile parlare di plagio. Ciò con la fondamentale precisazione che la legge non tutela l’idea in sé ma la forma della sua espressione, intesa cioè come risultato dell’attività intellettuale dell’autore: le idee, infatti, non ricevono protezione nel nostro ordinamento bensì le modalità con cui esse vengono realizzate e cioè la forma esterna di rappresentazione (principio costantemente ribadito in giurisprudenza poi normato nella convenzione internazionale TRIP’s – Trade related Intellectual Property Rights, che nell’art. 9, n. 2) espressamente enuncia: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti in quanto tali”. Tra le più recenti pronunce vedasi Cass. Civ. sez. I, 29 Maggio 2020, n. 10300, Riv. Dir. Ind., 2020, 2, 345).

Stante la citata scarsità di materiale giurisprudenziale e dottrinale in materia, si può azzardare una riflessione, sul piano analogico, in relazione alle opere d’arte visuali, e segnatamente alle opere figurative.
A tale proposito intendo fare riferimento a due casi giudiziari: il caso Vedova e il caso Isgrò.
Nel primo, una galleria d’arte aveva posto in commercio (tramite televendita), alcuni quadri di un determinato autore, i quali, sia pur con dimensioni diverse e più piccole, risultavano imitativi delle opere dell’artista informale Emilio Vedova (defunto nel 2006, i cui diritti sono detenuti dalla Fondazione a lui intitolata).
Ponendo correttamente l’accento sulla sola forma espressiva e non sull’idea (e tanto meno sul pregio artistico o sul prezzo delle opere), il Tribunale e la Corte d’appello di Milano, svolto con l’ausilio di una consulenza tecnica l’esame comparativo dei dipinti, sono giunti a ritenere la sussistenza del denunciato plagio. Venivano in particolare in rilievo le medesime masse cromatiche e l’uguale localizzazione dei colori. Ciò partendo del presupposto che ogni artista abbia una riconoscibile impronta, una compiutezza espressiva e uno “scarto semantico” che nel caso di specie risultavano imitati/riprodotti nell’opera plagiaria, a nulla rilevando elementi di dettaglio quali la dimensione più ridotta (e quindi anche più commerciabile) dei quadri e l’uso della spatola anziché del pennello.
La Suprema Corte ha confermato le due sentenze di merito, richiamando anzitutto l’art. 171, 1° comma, l. aut., che sanziona penalmente il fatto di chi “senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma, a) riproduce …, vende o mette in vendita o pone altrimenti in commercio un’opera altrui”. Nella pronuncia viene inoltre confermata la sussistenza del plagio quando l’opera plagiaria abbia mutuato dall’opera plagiata il cd. nucleo individualizzante o creativo, ricalcando in modo pedissequo quanto da altri ideato ed espresso in forma determinata e identificabile. Al contrario, afferma la Corte, il plagio è da escludersi allorché la nuova opera si fondi sì sulla stessa idea ispiratrice, ma si differenzi negli elementi essenziali che ne caratterizzano la forma espressiva (Cass. Sez. I, 26 gennaio 2018 n. 2039, Foro it., 2018, 3, I, 855).

Il secondo caso ha visto contrapporsi il noto artista Emilio Isgrò e la casa discografica Sony Music Entertainment e ha avuto ad oggetto la copertina del disco di Roger Waters (già fondatore e membro dei Pink Floyd) intitolato “Is this the life we really want?”.
L’artista italiano aveva agito in via cautelare davanti al Tribunale per ottenere l’inibitoria della commercializzazione, diffusione e distribuzione dell’involucro del disco, in quanto ritenuto un plagio delle sue opere, ed in particolare di quella intitolata “Cancellature”, del 1964.
Ed infatti, la tecnica della cancellatura da un testo scritto riprodotto sulla copertina, da cui emerge il titolo dell’album, appare analoga, per non dire identica, a quella da molti anni utilizzata da Isgrò nelle sue opere: linee nere, tracciate in modo irregolare, che lasciano trasparire alcuni segni grafici sottostanti, mettendo in evidenza le residue parole risparmiate dalle cancellature.
Anche in tale caso, il Giudice muove dal corretto assunto per cui la protezione del diritto d’autore non ha ad oggetto le idee, ma solo ed unicamente le forme in cui esse vengono espresse. Messa da parte ogni considerazione riguardo all’idea sottesa alle due opere (che peraltro si assumeva essere differente), il Collegio si è concentrato sulle seguenti questioni: a) accertare il carattere creativo/artistico delle opere di Emilio Isgrò, espresse in quella data forma (cancellature); b) effettuare una valutazione comparativa delle opere di Isgrò rispetto al materiale che ricopre il supporto fonografico (CD e disco in vinile) onde verificare se il secondo costituisca una riproduzione delle prime.
Essendosi data risposta affermative ad entrambe le questioni (la seconda sostenuta anche dalla percezione da parte dei critici musicali e dei critici d’arte, che hanno immediatamente associato la copertina dell’opera discografica di Roger Waters a quella di Emilio Isgrò), il Giudice ha accolto la domanda del ricorrente, inibendo la distribuzione della copertina del disco (Trib. Milano, Sez. Impresa, ord. 25 luglio 2017).
Per i curiosi del finale dirò che Isgrò e Waters, con un comunicato congiunto del 2018, previa espressione dei sentimenti di stima reciproca, hanno dichiarato di aver trovato un accordo prevedente la rinuncia dell’artista italiano alla propria istanza, con conseguente via libera alla distribuzione del disco. Non è dato conoscere se ciò abbia previsto una qualche forma di compensazione (il comunicato si può leggere su il Post, 31 gennaio 2018; https://www.ilpost.it/2018/01/31/isgro-waters-accordo/).


Si può azzardare a questo punto un parallelismo con l’opera fotografica, quella cioè, nella tripartizione presente nel nostro sistema, che presenti indubbi elementi di creatività, sia pur con tutti i limiti e le estensioni che tale concetto può assumere.
D’altra parte, se la fotografia è entrata a far parte (sia pur tardivamente) delle opere dell’ingegno protette ai sensi della legge sul diritto d’autore (come la pittura, la letteratura, la musica ecc.) non c’è ragione di escludere a priori l’applicazione degli stessi principi dettati in tema delle altre arti visive all’opera fotografica.

Non vi è dubbio, anzitutto, che sia possibile la “contraffazione”, nel senso sopra esplicato, intesa come riproduzione di un’opera fotografica esistente (in violazione dei diritti dell’autore) con attribuzione della paternità all’autore “contraffatto”. Come detto sopra, il caso più comune è quello della pubblicazione non autorizzata di immagini riferite ad un certo autore, in violazione dell’art. 171 l. aut. lett. a) l. aut.
Altro caso possibile è la riproduzione fotografica di una fotografia d’autore (in ipotesi anche da un catalogo), eventualmente falsificando anche il timbro e/o la firma (se esistenti) e immetterlo sul mercato. Ancor più facile sarebbe appropriarsi e realizzare una o più stampe di un file fotografico di cui l’ipotetico contraffattore sia venuto in possesso per qualche ragione, oppure che abbia semplicemente reperito sul web in un formato sufficientemente adatto alla stampa. La differenza rispetto alle ipotesi di un dipinto falsificato risiede qui nel fatto che la fotografia (sia da negativo che da file) è per sua natura riproducibile all’infinito ed il supporto non è necessariamente (o almeno non è più) un elemento intrinseco ed imprescindibile che caratterizza l’opera d’arte. Stesso discorso potrebbe valere per altre tecniche di riproduzione seriale delle opere d’arte: ad esempio le litografie, di cui sarebbe possibile tirare “N” copie ove lo stampo non sia stato spaccato dopo l’utilizzo compiuto dall’autore: il tema in discorso ci porta qui al celebre saggio risalente agli anni trenta del ‘900 di Walter Benjamin, di cui non è possibile qui trattare (L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, ripubblicato da Einaudi, 2011).
In linea del tutto teorica sarebbe anche pensabile realizzare ex novo (non riprodurre) una determinata fotografia d’autore, ammesso che sia possibile (e non lo è mai) avere a disposizione quello stesso soggetto, quel dato paesaggio, quella situazione e via dicendo (di fatto è un’ipotesi impraticabile). Per fare un esempio a tutti noto, se volessi riprodurre la celebre fotografia di Gianni Berengo Gardin della vettura ripresa da dietro sulla spiaggia davanti all’oceano, non solo dovrei ritrovare quella vettura con quella targa, ma anche la stessa luce e, soprattutto, lo stesso, identico cielo! Semplicemente impossibile.
Altre immagini (penso ad esempio alla fotografia di still life) potrebbero risultare meno complicate, ma parliamo sempre di ipotesi estreme. Ma soprattutto, ci si chiede, a quale scopo, dato che esisterà sempre l’opera originale?

Veniamo adesso al profilo del “plagio”, inteso come l’appropriazione di elementi creativi e autoriali espressi in determinate forme e modalità espressive.
Il dato di partenza, come più volte sottolineato, è che la tutela del diritto d’autore non protegge le idee alla base dell’opera ma soltanto la forma nella quale l’idea è esternalizzata.
Anche in questo caso, a mio avviso, non potrebbe escludersi a priori la possibilità del plagio, almeno in teoria. In pratica, occorre che il fotografo, autore di quella “imitazione parassitaria” che costituisce il fulcro del plagio, realizzi le proprie opere fotografiche con modalità formali ed espressive chiaramente riconoscibili e ben distinguibili, che ne connotino la cifra stilistica in modo inequivocabile. Il che non è facile ma non è affatto da escludersi.
Si pensi, ad esempio, ai fotomosaici di Maurizio Galimberti, realizzati attraverso la giustapposizione di molteplici stampe Polaroid riproducenti particolari del soggetto fotografato, ricomposti sapientemente a formare l’immagine complessiva. In questo caso, se l’idea è quella del ritratto, la forma esteriore è costituita dal mosaico nel suo complesso. A ben guardare, l’ipotesi in esame non è molto dissimile da quella del caso Isgrò, avendo la composizione dei frammenti del ritratto analoga natura delle cancellature sul testo: Isgrò cancella parti di testo per far emergere le restanti; Galimberti assembla frammenti del soggetto per fare emergere il ritratto nel suo complesso. In entrambi i casi la tecnica formale è ben definita e identificabile.

Stesso discorso potrebbe valere per tutti gli autori che abbiano una loro cifra stilistica ben determinata e riconoscibile, rispetto ai quali l’eventuale realizzazione di immagini del tutto simili non possano avere quello “scarto semantico” tale da renderle originali.
Penso ad esempio, per restare in Italia, ai paesaggi marchigiani di Mario Giacomelli, contrastati all’estremo con un lavoro in camera oscura fino al punto da renderli trasfigurati e astratti, oppure ai tagli di colore di Franco Fontana, simili a opere pittoriche e informali. Fuori dall’Italia, mi viene da pensare alle gigantesche allegorie baroccheggianti, dai colori accesi, di David Lachapelle.

In questi casi, non potrebbe a mio avviso escludersi che, sulla base degli stessi principi affermati dalla giurisprudenza sopra citata, anche in tema di fotografia sia possibile configurare un’ipotesi di plagio, nel senso fatto proprio sopra, tutelabile con gli strumenti offerti dalla legge sul diritto d’autore.

A conferma delle ipotesi appena tratteggiate si pone un interessante caso, in cui l’esistenza del plagio di un’opera fotografica è stato ritenuto sussistere non già tramite la realizzazione di un’altra fotografia, ma attraverso la pittura.
In pratica, un pittore aveva riprodotto in modo pedissequo, e successivamente pubblicizzato e posto in commercio, alcune fotografie di “still life” realizzate dal fotografo Mauro Davoli, con ciò violando – come ritenuto dal Tribunale – sia i diritti di utilizzazione economica sia il diritto morale. Per giunta, il pittore aveva inserito le fotografie delle opere pittoriche sul suo sito internet, accompagnate dall’indicazione “Fotografato da Mauro Davoli”, con l’evidente intento e conseguente risultato di creare confusione in relazione all’effettiva paternità delle opere e lasciando intendere che le fotografie del Davoli rappresentassero esse stesse le proprie opere pittoriche. Conseguentemente il Giudice ordinava in via cautelare l’inibizione dell’ulteriore realizzazione e commercializzazione delle opere, disponendo altresì il sequestro delle stesse (Trib. Milano, ord. 27 dicembre 2006, in Dir. Aut. 2007, 264, con nota di commento di Salvo Dell’Arte, “Opere fotografiche e plagio trasversale. Tutela cautelare”).
Il caso citato appare doppiamente interessante: anzitutto perché ha per oggetto il plagio di un’opera fotografica, di cui afferma pacificamente la configurabilità e accerta la sussistenza (primo precedente noto); in secondo luogo perché il plagio vede coinvolte opere d’arte visiva di diversa natura: da una parte opere fotografiche, dall’altra opere pittoriche (che la dottrina, nella nota di commento sopra citata definisce “plagio trasversale”). Un’ipotesi opposta a quella che normalmente dà luogo a controversie, e cioè della riproduzione fotografica di opere pittoriche: fattispecie che tuttavia non dà luogo a plagio, ma che rileva più semplicemente in quanto illecita riproduzione di opera dell’ingegno, quando ciò non sia autorizzato dall’autore.

IL CASO BUTTURINI.
QUANDO L'EDITING PUO' DIVENTARE LESIVO

date » 08-04-2025 16:50

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IMG_7408.jpgDoppia pagine del libro "London" di Gian Butturini
(Courtesy Archivio Gian Butturini)

La vicenda delle fotografie di Gian Butturini contenute nel libro “London”, l’accusa di razzismo e le conseguenze che ne sono seguite, ci offrono l’occasione per alcune riflessioni sulla potenziale lesività della fotografia di ritratto a seconda del suo utilizzo e del contesto in cui essa è pubblicata.

Prima di tutto i fatti.
Qualche anno fa Martin Parr, celebre fotografo Magnum, tra i più grandi collezionisti di libri fotografici al mondo, nonché tra i più influenti personaggi nel campo della fotografia contemporanea, si imbatte nel libro “London” di Gian Butturini.
Il libro, pressoché autoprodotto, edito nel 1969 in poche copie, era da anni ormai esaurito e introvabile; i pochi esemplari reperibili sul mercato dell’usato avevano (e hanno) prezzi molto elevati.
Per Martin Parr si tratta di un “gioiello abbandonato”, che merita di essere ripubblicato ed adeguatamente valorizzato.

Si mette così sulle tracce della vedova ed i figli dell’autore (scomparso nel 2006) e nel 2017 ne promuove una riedizione presso l’editore Damiani.
Non solo, organizza anche una mostra al Barbican Centre di Londra e un talk in occasione di Photo London.
Come indica nella prefazione, da lui curata, la “Swinging London” della metà degli anni ’60 era stata scarsamente rappresentata dai fotografi britannici, per lo più concentrati sugli aspetti fashion (David Bailey, Terence Donovan) che non a raccontare i cambiamenti della scena sociale e giovanile di quel periodo e la neonata cultura beat, che ben presto si estesero da Londra al resto del mondo.

A pubblicazione avvenuta, una studentessa britannica di antropologia, tale Mercedes Baptiste Halliday, alla quale il libro era stato regalato per il compleanno, si sofferma su una doppia pagina del libro, che ritrae, sulla sinistra, una donna nera, addetta ai biglietti, nel gabbiotto della metropolitana; sulla destra un gorilla in gabbia.
Disgustata e indignata, la giovane studentessa scatena una poderosa campagna di protesta contro il libro e il suo curatore, giudicando manifestamente razzista l’immagine (meglio, l’accostamento delle due immagini) e chiedendone il ritiro dal mercato.

L’impatto della campagna è devastante: Martin Parr si dimette dalla Direzione del Festival di fotografia di Bristol; si scusa per non essersi accorto dell’accostamento razzista tra le due immagini chiedendo all’editore, non solo il ritiro del libro, ma addirittura di mandarlo al macero.
Va detto a questo punto che grazie all’impegno dei figli di Gian Butturini (Marta e Tiziano), il libro è stato recuperato dall’editore, e, pur non essendo possibile distribuirlo secondo i canali ufficiali, è stato quanto meno salvato dall’estinzione ed è acquistabile direttamente rivolgendosi loro (www.gianbutturini.com).

La vicenda è stata (ed è) oggetto di ampio dibattito, potendo essere analizzata sotto molteplici profili: fotografico, politico, culturale, sociologico e – mi permetto di aggiungere – giuridico.
Come ha ben osservato Michele Smargiassi (La Repubblica, 22.7.2020; Fotocrazia, 30.9.2020), la vicenda è stata un’occasione perduta per riflettere su vari temi: dalla lettura dell’immagine al linguaggio della fotografia, dalla libertà di espressione alla “Cancel Culture”,
L’assoluta mancanza di una qualsiasi riflessione critica su tali profili e la “resa incondizionata” di Martin Parr, hanno rischiato di mandare al macero un libro sull’altare del “politically correct”.
Senza istruttoria e senza appello, la fotografia è passata senz’altro nell’archivio delle immagini razziste. Poco importa se la storia personale del suo autore, il suo percorso umano e fotografico conducessero piuttosto nella direzione opposta. Poco importa se quelle due immagini accostate potessero essere suscettibili di una diversa lettura, forse meno immediata ma non per questo meno autentica: le due gabbie sono le rappresentazioni delle segregazioni che l’autore coglieva nella Londra di allora, segnata dalle emarginazioni e dal lavoro alienante riservato agli immigrati. Una “metafora della dignità che resiste allo scherno” (Smargiassi, cit.).
Ed in ogni caso, se contrariamente alle intenzioni del suo autore, all’accostamento delle due immagini potesse attribuirsi un effetto “razzista” (e non neghiamo certo che, in astratto, questa sia una possibile lettura), è possibile che ciò possa portare alla distruzione di un libro? Un atto che ci riporta a tempi e regimi oscuri, purtroppo anche recenti, che speravamo di aver lasciato alle nostre spalle.

Ciò detto, la vicenda suscita interesse anche per una riflessione sugli aspetti legali che un’immagine recante il ritratto di una persona può generare a seconda del contesto e delle modalità di pubblicazione: in definitiva dell’editing.
A prescindere dalle situazioni e delle circostanze che, in assenza del consenso, giustificano la divulgazione del ritratto (per il che ci si permette di rinviare al mio “Manuale di Sopravvivenza per fotografi”, Emuse), la legge prevede infatti che siano sempre rispettate le esigenze di tutela dell’onore, della reputazione e del decoro della persona ritrattata.
La tutela di tali diritti è espressamente sancita dal secondo comma dell’art. 97, l.aut., che funge da norma di chiusura del sistema, stabilendo i limiti estremi oltre i quali la divulgazione del ritratto diviene comunque illecita.
Orbene, la violazione della reputazione, del decoro e dell’onore della persona può essere determinata sia dal contenuto (come nel caso del soggetto ritratto in contegno in sé osceno o sconveniente), sia dalle modalità con cui avvenga la diffusione del ritratto.
In altri termini, la fotografia di ritratto può non essere di per sé stessa lesiva dei diritti tutelati dalla norma, ma lo può divenire per il contesto, il modo o il luogo in cui viene rappresentato.

Esaminiamo la fotografia della donna nera ritratta da Butturini, “come se” la pagina accanto fosse bianca.
Il ritratto, in sé e per sé non appare lesivo: la donna è raffigurata totalmente abbigliata, la sua posa non è sconveniente, l’espressione è triste ma non afflitta. Un ritratto che potrebbe essere definito “muto”, né indecente, né indecoroso.
Le cose cambiano completamente quando interviene l’editing, che pone accanto all’immagine della donna quella di un gorilla in gabbia. In questo caso la lettura dell’immagine può assumere una valenza del tutto nuova, sia che l’accostamento fosse voluto (ed in questo caso lo era), sia che fosse casuale.
Sia chiaro, non intendo dire che la lettura “corretta”, cioè l’interpretazione del dittico sia quella che ha portato all’accusa di razzismo (anzi la mia opinione è del tutto opposta), ma non vi è dubbio che la questione si ponga (e si è infatti posta fino alle sue estreme conseguenze).
Ciò che preme qui evidenziare è quindi che la potenziale lesività di una fotografia che veda ritratta una persona non dipenda solo dai contenuti della fotografia stessa, quanto dal contesto della pubblicazione.
Del resto, non è il primo caso che si è posto nella storia della fotografia.
Esso ci riporta, sia pur in circostanze diverse, al caso, del doppio ritratto preso da Robert Doisneau, uno dei maestri della fotografia umanista francese, in uno dei bistrot parigini che era solito frequentare.

La fotografia raffigura il muto dialogo tra una giovane e bella ragazza e un anziano signore al bancone, davanti a quattro bicchieri di vino. L’ambiguità della scena, buona per diverse interpretazioni, ha fatto sì che l’immagine, una volta ceduta all’agenzia, dopo la sua legittima e rispettosa pubblicazione in una photostory su «Life» sulla vita nei caffè parigini, divenisse poi oggetto di controversia giudiziaria quando la stessa venne pubblicata a illustrazione di un servizio sull’alcolismo e successivamente per un servizio sulla prostituzione.

Anche in questo caso, infatti, la fotografia era da ritenersi “neutra” dal punto di vista della lesività. Senonchè la reputazione, il decoro e l’onore dei soggetti ritratti ne risultavano potenzialmente lesi per effetto del contesto delle successive pubblicazioni: nel primo caso facendo passare i due soggetti per possibili alcolisti; nel secondo, per una prostituta lei ed un cliente o, peggio, un lenone lui.
In questo caso il differente editing e la differente, possibile lettura, non era data dall’accostamento con altra immagine (come nel caso Butturini), ma dalla contestualizzazione, dal rapporto tra la fotografia ed il racconto di cui costituisce il corredo.
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