FEDERICO MONTALDO

Fotografia e Diritto

FOTOGRAFIA SEMPLICE E CREATIVA.
IL CASO DELLA FOTOGRAFIA DI FALCONE E BORSELLINO

date » 07-04-2025 15:45

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tags » Falcone, Borsellino, Tony Gentile, semplice, creativa, diritti, fotografia, mafia, tutela, magistrati, palermo,

falcbors.jpgGiovanni Falcone e Paolo Borsellino, Palermo, 1992
(c) Tony Gentile

Per chi si occupa di diritto della fotografia, la vicenda della arcinota immagine (giustamente definita “iconica”) di Tony Gentile, ritraente i due magistrati vittime della mafia, a pochi mesi dagli attentati della terribile estate del ’92, costituisce un caso imprescindibile.

Il caso è già stato raccontato e commentato in due articoli (pubblicati su Noc Sensei, nella sezione "Fotografia: diritti, obblighi privacy" in occasione delle precedenti decisioni di merito: il primo, a seguito della sentenza del Tribunale di Roma; il secondo, a seguito della sentenza di appello.
La disputa vedeva contrapposto il fotografo Tony Gentile, autore del celebre scatto, contro la RAI Radiotelevisione Italiana. Quest’ultima, infatti, decorsi venti anni dalla realizzazione della fotografia, l’aveva mandata in onda più volte e pubblicata sul proprio sito web, a corredo di una campagna di sensibilizzazione in tema di legalità, senza alcuna autorizzazione da parte del suo autore e senza la corresponsione di alcun compenso.
I due giudizi di merito si sono conclusi sfavorevolmente per il fotografo, con il rigetto di tutte le domande proposte.
Ora, con recente sentenza (pubblicata in data 20 Dicembre 2024), la prima sezione della Corte di Cassazione, ha messo la parola fine alla controversia, pronunciandosi per l’inammissibilità del ricorso, riaffermando principi già esposti dalla Corte di Appello, ma di fatto lasciando senza risposta una serie di censure concernenti il cd. “doppio regime” di tutela della fotografia, a secondo che la stessa sia da qualificare come “semplice” o “creativa”.

L’attribuzione di una fotografia all’una o all’altra categoria comporta importanti ricadute in termini di diritti:
- nel caso della fotografia cd. “semplice”, all’autore sono riconosciuti i soli “diritti connessi”, cioè di “riproduzione, diffusione e spaccio”, che peraltro si esauriscono con lo scadere dei venti anni dallo scatto;
- nel caso della fotografia “creativa”, all’autore è accordata la piena tutela ai sensi della legge sul diritto d’autore, essendo la fotografia considerata come opera dell’ingegno (alla stregua di tutte le altre: opere letterarie, musicali, della scultura, della pittura, del cinema ecc.). I diritti che ne conseguono, morali e patrimoniali, durano per tutta la vita dell’autore e, in favore degli eredi, fino a 70 anni dalla morte.

Nel giudicare la vicenda - pur abbandonato il riferimento alla mancanza di contenuto “artistico” su cui si era incentrato il Tribunale – la Corte di Appello e la stessa Cassazione tengono fermo il punto del “carattere creativo” o meno della fotografia, quale discrimen per ascrivere la fotografia all’una o all’altra categoria.
Ad avviso dei giudici, infatti, la peculiarità dell’immagine, il suo carattere “particolarmente toccante” non risiede nel suo carattere creativo ma nell’eccezionalità dei soggetti, ovvero dei due magistrati, simbolo della lotta alla mafia, trucidati poco tempo dopo quello scatto.
Ora, non c’è alcun dubbio che il successo di quella fotografia è dipeso dai due soggetti ripresi e dalle loro tragiche morti, che hanno lasciato un segno indelebile nella storia e nella vita civile del nostro Paese.
Questo elemento, che è del tutto ovvio, non è sufficiente – di per sé - ad escludere il carattere “creativo” di quella fotografia; né può essere utilizzato per incidere sulla sua valutazione, in senso negativo.
A ben guardare, quell’immagine rappresenta un momento di intesa tra due persone, due amici, due colleghi (ma sarebbe lo stesso se fossero anche degli sconosciuti), che ritrae l’attimo fugace di un sorriso ed è accompagnata da una costruzione compositiva armonica e simmetrica. Il fatto che sia ritenuta “toccante” alla luce della sorte dei due protagonisti è del tutto irrilevante ai fini della sua qualificazione.
Si consideri tra l’altro che tra gli elementi selezionati dalla giurisprudenza per attribuire valore creativo ad una fotografia vi è anche la “capacità di cogliere l’attimo”, che è proprio ciò che si riscontra in questa immagine.
Ma ancor prima, dovrebbe considerarsi che l’atto del fotografare è in sé stesso un atto creativo in quanto si basa su una sintesi di capacità personali che si manifesta spesso come una sorta di illuminazione improvvisa, in una modalità di pensiero “produttiva”, che restringe e concentra il campo percettivo e cognitivo e che è preceduto da una serie di momenti preparatori (la scelta dell’inquadratura, della pellicola, dei settaggi della fotocamera, l’uso o meno del flash, dell’ottica).
Il fotografo compie sempre un’operazione di “prelievo dalla realtà”, che successivamente continuerà a vivere in modo autonomo e indipendente dalla realtà da cui è tratto. È del tutto illusorio ritenere che la fotografia possa semplicemente riprodurre il reale: in qualunque fotografia prevale lo sguardo del fotografo e il risultato non è mai la realtà ma qualcosa che la richiama o la cita.
C'è poi da considerare un altro aspetto. Ed è un aspetto che riguarda il linguaggio e il ruolo della fotografia, la quale (in Italia) è ancora considerata dai più con indulgente simpatia; di certo la meno rilevante tra le opere dell’ingegno, come testimonia il fatto che essa è entrata in tale novero solo nel 1979.
Esistono tante specie di fotografia: il reportage, la foto di moda, pubblicitaria, concettuale, artistica, sportiva, di ritratto, di cronaca ecc.
Ognuna di essa ha le proprie regole, le proprie specificità, le proprie peculiarità, che sarebbe bene conoscere per poterne giudicare i contenuti.
Il fatto è che il giudice - che nel caso in esame non ha neppure ritenuto di avvalersi dell’opera di un consulente tecnico - non ha né le capacità né le conoscenze per esprimere un giudizio sull’aspetto creativo o meno di una fotografia. A meno che per propria cultura personale conosca i temi sopra menzionati, nella pressoché assoluta generalità dei casi al giudicante manca la grammatica per scandagliare, valutare e esprimersi su un concetto così delicato e sfuggente come quello della creatività (in assoluto ed in particolare in fotografia).
D’altra parte, non sarebbe neppure giusto caricare sui magistrati il compito di una valutazione che spesso è talmente soggettiva e discrezionale, fondata sul bagaglio culturale di ogni singolo giudicante da divenire potenzialmente arbitraria.

Un’ultima notazione riguarda il significato attuale del persistente regime del “doppio binario”.
La durata limitata dei diritti connessi alla categoria “fotografia semplice” era giustificata per il fatto che, quando tale nozione è stata introdotta (nel 1941), la fotografia aveva un’importantissima funzione di medium. In un’epoca in cui l’analfabetismo in Italia era ancora elevatissimo, la televisione non esisteva ed in cui la quasi totalità dell’informazione passava attraverso la carta stampata, la limitazione dei diritti di privativa sulle immagini aveva una sua specifica funzione.
Non per niente tra gli anni ’20 e gli anni ’60 si colloca l’epoca d’oro delle riviste e dei Magazines ospitanti fotografie (Life, Vu, Regards, Paris Match, Illustrazione Italiana, Epoca, Europeo ecc.).
Ottant’anni dopo, in un contesto tecnologico completamente cambiato, tale categoria appare del tutto anacronistica. Nel mondo digitalizzato, del web, dei social, delle tv satellitari, l’informazione generale non passa più attraverso la fotografia, la quale – in disparte l’aspetto artistico – si configura, anche nel fotogiornalismo, come un punto esclamativo su un articolo, una notizia, un servizio. Il reportage non è più (o non è solo) quello del medico di campagna di Eugene Smith, che raccontava su Life agli americani quella storia, ma è sempre più un lavoro di riflessione e indagine, in cui l’aspetto informativo non sempre è preponderante.
Ecco allora che, data la sostanziale incertezza nel tracciare una netta linea di demarcazione tra fotografia oggetto di diritto d’autore o di diritto connesso, appare quanto mai necessario indirizzarsi verso il superamento del regime del cd. “doppio binario”.
Ciò con l’introduzione, a livello legislativo, di un unico sistema che conceda un’uniforme protezione alle opere fotografiche, fondato non già su valutazioni di tipo estetico-creativo, ma sulla presenza di un minimo di prestazione personale da parte del fotografo.

LIBERATORIA FOTOGRAFICA: COS'E' E QUANDO SERVE

date » 09-04-2025 11:13

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tags » fotografia, liberatoria, ritratto, diritto, autorizzazione, consenso, minori,

DSCF8584.jpgFontana di Trevi, Roma, 2019
(c) Federico Montaldo

Chiunque abbia frequentato la fotografia di ritratto, nelle sue varie forme, si si è presto o tardi trovato a confrontarsi con il tema della liberatoria.
Ma cosa si intende esattamente con questo termine, e, soprattutto, quale ne è lo scopo e quali i suoi limiti?
Per comprenderne il significato e la finalità occorre fare riferimento a due norme di legge: l’art. 10 del codice civile e l’art. 96 della legge sul diritto d’autore.
La prima norma (intitolata “Abuso dell’immagine altrui”) prevede che:

“qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o del figlio sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”.

Come si può notare dalla semplice lettura del testo la norma non regola l’uso, ma sanziona l’abuso. Ciò significa che per determinare la legittima esposizione e pubblicazione del ritratto di una persona occorre: a) che avvenga nei casi previsti dalla legge; b) che non arrechi pregiudizio al decoro e/o alla reputazione della persona.

La seconda norma prevede che:

“il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa salve le disposizioni dell’articolo seguente”.

Tale norma esprime la “regola del consenso”, cioè il principio secondo il quale per la riproduzione dell’immagine di una persona è necessario il suo consenso.
In disparte per ora le (non poche) deroghe previste dalla legge a tale principio (contenute nel successivo art. 97), concentriamoci sulle caratteristiche del consenso.
Senza qui accennare alla natura giuridica del consenso (come negozio unilaterale), è importante osservare che esso deve essere espresso, cioè deve essere reso manifesto. Ed è esattamente a questo che provvede la cd. liberatoria, che quindi altro non è che una dichiarazione scritta con la quale il soggetto ritratto autorizza l’esposizione e la pubblicazione della propria immagine, così ponendo al riparo il fotografo (od eventuali altri soggetti) dal rischio di un eventuale abusivo utilizzo.
Ciò entro i limiti temporali e secondo le modalità e gli scopi stabiliti nella liberatoria stessa.
Occorre dire infatti che il consenso è generalmente espresso con riguardo ad un determinato utilizzo, e, soprattutto, è circoscritto nei confronti del soggetto (o dei soggetti) che ne sono destinatari.
Ad esempio, se io esprimo il consenso alla pubblicazione della mia immagine per una campagna benefica, ne risulterebbe ovviamente abusivo l’utilizzo per una pubblicità. Lo stesso a dirsi se quell’immagine, in ipotesi autorizzata esclusivamente per la realizzazione di un manifesto, sia poi utilizzata sul web, ancorché per lo stesso scopo.

Ciò detto, la liberatoria (intendendosi per tale un’autorizzazione scritta e sottoscritta) è sempre da considerarsi necessaria?
Come sopra evidenziato, il consenso deve sempre essere espresso. Ciò non significa tuttavia che la sua espressione debba necessariamente intervenire in forma scritta. Il consenso potrebbe essere infatti manifestato anche in forma tacita o “per fatti concludenti”: cioè quando si possa affermare che, per le circostanze in cui il soggetto è stato ritratto, è comunque evidente o implicito il suo consenso.
Il problema che si pone molto spesso nella pratica riguarda la condotta del soggetto ritratto, che deve essere sufficientemente univoca. Non si può cioè attribuire rilievo a condotte neutre (come ad esempio uscire di casa o intrattenersi presso un luogo pubblico), ma solo a comportamenti che, sebbene taciti, appaiono comunque inequivoci. In questo senso, ad esempio, è stato ritenuto che sottoporsi spontaneamente ad un servizio fotografico, al di fuori di una specifica commissione, costituisca implicito consenso alla diffusione della propria immagine; in altri casi si è fatto riferimento alla condotta di chi non abbia opposto alcun divieto alla ripresa di fotografie durante uno spettacolo in un locale pubblico.
In molti casi potrà essere la fotografia stessa a rivelare il comportamento: se il soggetto inquadrato guarda in macchina e magari sorride pure, sarà più agevole sostenere che abbia prestato il proprio consenso rispetto ad una immagine in cui il soggetto tende un braccio in segno di opposizione, o semplicemente, abbia un atteggiamento poco … conciliante!
Un’ultima, ma fondamentale, caratteristica del consenso è la sua revocabilità. Trattandosi infatti di in diritto personalissimo, il soggetto, anche quando abbia autorizzato l’utilizzo della propria immagine può sempre mutare avviso, così revocando il consenso originariamente dato. In questo caso, tuttavia, se il fotografo o il soggetto destinatario dell’autorizzazione ha sostenuto spese e/o si è impegnato contrattualmente per l’utilizzo delle immagini avrà diritto al risarcimento dei danni subiti.

IL COLLEZIONISTA HA DIRITTO DI REALIZZARE UN'ESPOSIZIONE PUBBLICA DI FOTOGRAFIE?

date » 09-04-2025 10:52

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tags » esposizione, mostra, fotografia, catalogo, comunicazione, pubblicità, diritto, autore, corpus, stampe,

IMG_4348.jpg(c) Federico Montaldo

Spesso ci si domanda se ed entro quali limiti quali limiti il proprietario-collezionista di opere dell’ingegno protette da diritto d’autore (nel caso di specie stampe fotografiche), sia legittimato a realizzare con le medesime un’esposizione pubblica.
La questione, che a molti potrebbe sembrare banale o di facile soluzione, nasconde in realtà alcuni nodi riguardanti la corretta applicazione della legge sul diritto d’autore.

Come è noto, l’autore ha i diritti esclusivi di utilizzare economicamente la propria opera, in tutte le forme ed i modi consentiti dalla legge (art. 12 l. aut.).
Tali diritti, di natura patrimoniale, possono essere ceduti a terzi con contratti di diversa natura e caratteristiche (vendita, licenza, noleggio, prestito ecc.), dall’autore stesso o dai di lui eredi (art. 107 l. aut.).
Deve essere ben chiaro, peraltro, che con la cessione di uno o più esemplari dell’opera nella sua materialità (il quadro, la scultura, la stampa fotografica, la stampa litografica ecc.), non comporta la trasmissione anche di tali diritti. A meno che ciò sia stato espressamente previsto (art. 109 l. aut.) e che risulti provato per iscritto (art. 110 l. aut.).

Oggetto del diritto d’autore, infatti, è il bene immateriale (il c.d. corpus mysticum), distinto dal possesso/proprietà del mero supporto sul quale l’opera è fruibile (il c.d. corpus mechanicum).
Con riferimento specifico alle fotografie, tali diritti sarebbero da presumersi trasferiti all’acquirente nel solo caso di cessione del negativo o di altro mezzo di riproduzione (art. 89 l. aut.). Salvo sempre il patto contrario.
Non ci soffermiamo qui sulla possibile assimilazione a detta cessione del file fotografico digitale.

Ciò premesso si pone questione se tra i diritti esclusivi spettanti all’autore (o ai suoi eredi) rientri anche il “diritto di esposizione” al pubblico. Se così fosse, occorrerebbe sempre ottenere apposita autorizzazione dall’avente diritto, mentre ciò non sarebbe necessario nel caso contrario.
Occorre dire anzitutto che la legge sul diritto d’autore non menziona espressamente il diritto di esposizione. Tale silenzio ha generato opinioni contrapposte in dottrina.
Per una parte, tale diritto rappresenta una forma di “comunicazione al pubblico”, e quindi sarebbe da considerarsi riservato all’autore ed ai suoi aventi causa. Per altra parte, all’opposto, esso rappresenta solo una facoltà inerente al diritto di proprietà, senza quindi necessità di autorizzazione da parte dell’artista.

In tale contesto, non definito dalla legge, si è peraltro espressa la giurisprudenza, secondo la quale il diritto di organizzare esposizioni al pubblico di un’opera spetti al proprietario e non all’artista (Trib. Verona, 13.10.1989; App. Venezia, 25.03.1955; Trib. Roma, 16.05.1959; App. Roma, 13.05.1961; Cass. 01.03.1967).
In definitiva, secondo la prevalente giurisprudenza, al proprietario-collezionista è generalmente consentito realizzare esposizioni al pubblico con opere coperte da diritto d’autore.

Occorre tuttavia svolgere alcune precisazioni ulteriori.

Anzitutto, pur essendo il diritto di esposizione non espressamente previsto dalla legge, nulla esclude che esso possa essere convenzionalmente stabilito e regolato tra le parti, a livello privatistico, all’atto della cessione dell’opera. In altri termini, l’autore (e/o i suoi eredi) possono decidere espressamente di escluderlo, oppure di ammetterlo al ricorrere di determinate condizioni e/o comunque previa autorizzazione da parte del titolare. Così come può essere imposto all’acquirente di trasferire dette obbligazioni agli eventuali sub-acquirenti dell’opera.

In secondo luogo, al proprietario-collezionista che effettui una mostra è inibito realizzare un catalogo delle opere esposte.
Il diritto di riproduzione dell’opera costituisce infatti prerogativa esclusiva del titolare del diritto d’autore e la sua eventuale realizzazione, dando luogo ad una moltiplicazione dell’opera, ne costituirebbe una violazione, fonte di risarcimento del danno (art. 13 l. aut; sul punto v. Cass. 19.12.1996 n. 11343).
Né pare possibile che l’esposizione delle opere possa arrecare un lucro al proprietario-collezionista, poiché anche in tale caso si andrebbe a ledere il diritto allo sfruttamento economico dell’opera, riservata al titolare del diritto d’autore.
Infine, l’esposizione al pubblico potrebbe eventualmente concretare violazione dei diritti morali dell’autore (artt. 20-24 l.aut.).
Ciò potrebbe configurarsi qualora le modalità espositive siano ritenute lesive dell’onore o della reputazione dell’autore stesso. Si pensi, ad esempio, al caso in cui l’esposizione includa opere non rappresentative del lavoro dell’artista presentate invece come significative, o quando l’autore sia accostato ad altri artisti di diversa corrente o genere artistico. Oppure, più semplicemente, quando l’esposizione sia realizzata in un contesto inappropriato o con un allestimento scadente e/o di profilo inadeguato rispetto all’immagine dell’artista.
I diritti morali (tra questi si consideri la paternità dell’opera, l’opposizione a qualunque deformazione, modificazione, mutilazione che possa arrecare pregiudizio all’immagine dell’artista), sono considerati inalienabili, e, dopo la morte dell’autore possono essere fatti valere, senza limiti di tempo, dal coniuge e dai figli, dai fratelli e sorelle e dai loro discendenti.

Altra questione riguarda invece la realizzazione di un catalogo della mostra, oppure il materiale di comunicazione e pubblicitario dell’esposizione con tutte le possibili modalità. In tali casi, non vi è dubbio che al proprietario delle opere esposte sia inibito l’utilizzo delle riproduzioni delle opere in mostra, in cui diritti restano pur sempre in capo al titolare del diritto d’autore od ai suoi eredi.
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